Cos’è la violenza? Chi può definirla? Ha un ruolo quando si persegue la liberazione? Ques’annosa questione è tornata alla ribalta durante il movimento Occupy. Ma questa discussione non si svolge mai in condizioni di parità; mentre qualcuno delegittima la violenza, il linguaggio della legittimità stessa apre la strada alle autorità per impiegarla. [Qui *potete ascoltare una versione audio di questo testo.]
“Sebbene poliziotti a cavallo, e con cani, abbiano caricato la strada principale fuori dalla stazione di Polizia per respingere i rivoltosi, c’erano sacche significative che non sono riusciti a raggiungere.”
– The New York Times , sui disordini nel Regno Unito dell’agosto 2011
Durante il vertice FTAA (Free Trade Area of the Americas - Zona di libero scambio delle Americhe) del 2001 a Quebec City, un giornale riportò la notizia che la [violenza era scoppiata quando i manifestanti avevano iniziato a lanciare bossoli di lacrimogeni sui poliziotti della Squadra Antisommossa] (http://www.trabal.org/texts/stvio_socmovestud.pdf) . Quando si percepisce che le autorità hanno il monopolio dell’uso legittimo della forza, la “violenza” viene spesso usata per indicare l’uso illegittimo della forza - tutto ciò che interrompe o sfugge al loro controllo. Ciò trasforma il termine in una sorta di significante flottante , poiché si intende anche “danno o minaccia che violano il consenso.”
Ciò è ulteriormente complicato dal modo in cui la nostra società è basata e permeata da danni o minacce che violano il consenso. In questo senso, non è violento vivere in un territorio colonizzato, distruggendo gli ecosistemi attraverso il nostro consumo quotidiano e beneficiando delle relazioni economiche con le quali sottomettiamo gli altri attraverso l’uso delle armi? Non è violento per le guardie armate privare di cibo e terra, una volta condivisi da tutti, coloro che ne hanno bisogno? È più violento resistere alla Polizia che sfratta le persone dalle loro case o stare da parte mentre le persone diventano senzatetto? È più violento lanciare lacrimogeni ai poliziotti o denunciare come “violenti” quelli che li lanciano per difendersi, dando agli agenti la possibilità di fare peggio?
In questa situazione, non esiste la nonviolenza – ciò che più possibile a questo possiamo cercare di fare è negare il danno o la minaccia rappresentati di chi sostiene la violenza dall’alto verso il basso. E quando così tante persone sono coinvolte nei privilegi che questa violenza offre loro, è ingenuo pensare che potremmo difendere noi stessi e gli altri tra i diseredati senza violare i desideri di almeno qualche banchiere e proprietario. Invece di chiedere se un’azione è violenta, potremmo fare quindi di meglio semplicemente chiedendoci: contrasta le disparità di potere o le rinforza?
Questa è la domanda anarchica fondamentale che possiamo porci in ogni situazione; ogni ulteriore interrogativo su valori, tattiche e strategie proviene da essa. Quando la domanda può essere formulata in questo modo, perché qualcuno dovrebbe voler riportare il dibattito sulla dicotomia violenza/nonviolenza?
Il discorso sulla violenza e la nonviolenza è attraente soprattutto perché offre un modo semplice per rivendicare elevati valori morali. Questo lo rende seducente sia per la critica verso lo Stato sia per competere con altri attivisti per esercitare influenza. Ma in una società gerarchica, la rivendicazione di elevati valori morali spesso rafforza la gerarchia stessa.
La legittimità è una delle valute equamente distribuite nella nostra società, attraverso cui vengono mantenute le sue disparità. Catalogare persone o azioni come violente è un modo per escluderle dal discorso legittimo, per metterle a tacere e metterle da parte. Ciò unisce e rinforza altre forme di emarginazione: un bianco ricco può agire “non-violentemente” in modi che sarebbero visti come violenti se un nero povero si comportasse allo stesso modo. In una società diseguale, la definizione di “violenza” non è più neutrale di qualsiasi altro strumento.
Definire le persone o le azioni come violente ha anche conseguenze immediate: giustifica l’uso della forza contro di loro. Questo è stato un passo essenziale in quasi ogni campagna rivolta a comunità nere, movimenti di protesta e altri che si trovavano dalla parte sbagliata del sistema capitalistico. Se vi è capitato di partecipare a un numero sufficiente di manifestazioni, sapete che è spesso possibile prevedere con esattezza quanta violenza la Polizia utilizzerà contro una dimostrazione dal modo in cui la storia viene presentata sui notiziari la sera prima. A tal proposito, esperti e persino organizzatori rivali possono partecipare alle attività di controllo schierandosi al fianco della Polizia, determinando chi è un obiettivo legittimo dal modo in cui viene data vita alla narrazione.
Nel primo anniversario dell’insurrezione egiziana, i militari revocarono la legge di emergenza - “eccetto in casi legati ad attività criminali.” La rivolta popolare del 2011 aveva costretto le autorità a legittimare forme di resistenza precedentemente inaccettabili, con Obama che definiva “nonviolenta” un’insurrezione in cui migliaia di persone avevano combattuto contro la Polizia e incendiato le stazioni di Polizia . Per legittimare nuovamente l’apparato giuridico della dittatura, è stato necessario creare una nuova distinzione tra “criminali” violenti e il resto della popolazione. Tuttavia, la sostanza di questa distinzione non è mai stata spiegata; in pratica, “delinquente” è semplicemente il termine per definire una persona presa di mira dalla legge di emergenza. Dal punto di vista delle autorità, idealmente, l’inflizione della violenza stessa basterebbe a marchiare le sue vittime come violente, cioè come obiettivi legittimi.1
- Il capitano della Polizia UC Margo Bennett, citata in The San Francisco Chronicle , giustifica l’uso della forza contro gli studenti dell’Università della California a Berkeley
Gli strumenti del Padrone: delegittimazione, falsa dichiarazione e divisione
La repressione violenta è solo una faccia della duplice strategia con la quale vengono repressi i movimenti sociali. Perché questa abbia successo, i movimenti devono essere divisi in legittimi e illegittimi e i primi devono essere convinti a rinnegare i secondi, di solito in cambio di privilegi o concessioni. Questo processo è evidente negli sforzi compiuti da giornalisti professionisti - come Chris Hedges e Rebecca Solnit - per demonizzare i rivali nel movimento Occupy.
Nel suo articolo dell’anno scorso “Throwing Out the Master’s Tools and Building a Better House: Thoughts on the Importance of Nonviolence in the Occupy Revolution ” (“Rifiutare gli strumenti del padrone e costruire una casa migliore: riflessioni sull’importanza della nonviolenza durante la rivoluzione di Occupy“), Rebecca Solnit ha mischiato argomenti morali e strategici contro la “violenza,” valutando tutte le possibilità dell’eccezionalismo ricorrendo a una sorta di eccezionalismo americano: gli zapatisti possono trasportare armi e i ribelli egiziani dare fuoco agli edifici ma negli Stati Uniti nessuno deve osare bruciare una pattumiera. Di base, la sua tesi era che solo il “potere del popolo” può realizzare un cambiamento sociale rivoluzionario e che il “potere del popolo” è necessariamente non violento.
La Solnit dovrebbe sapere che la definizione di violenza non è neutrale: nel suo articolo “The Myth of Seattle Violence” (“Il mito della violenza di Seattle“), ha raccontato la sua fallimentare lotta per far sì che The New York Times smettesse di rappresentare le manifestazioni contro il vertice della WTO (World Trade Organization - Organizzazione mondiale del commercio) del 1999 a Seattle come “violente.” Sottolineando costantemente la violenza come sua categoria centrale, la Solnit sta rafforzando l’efficacia di uno degli strumenti che saranno inevitabilmente usati contro i manifestanti, compresa lei stessa, ogni volta che ciò servirà gli interessi dei potenti.
La Solnit si rivolge in modo particolarmente iroso nei confronti di coloro che sostengono la diversità delle tattiche come un modo per impedire la suddetta divisione dei movimenti. Diversi paragrafi di “Throwing Out the Master’s Tools” sono stati dedicati alla denuncia del pamphle di CrimethInc “Dear Occupiers” (“Cari occupanti”): la Solnit sostenne che era solo “un sermone per la giustificazione della violenza,” “machismo vuoto costellato di insulti,” abbassandosi a lanciare attacchi personali contro autori di cui, in verità, non sapeva nulla.2
Come chiunque può vedere chiaramente , la maggior parte del testo “Dear Occupiers” esamina semplicemente i problemi sistemici con il capitalismo; la difesa della diversità delle tattiche è limitata a un paio di paragrafi sottotono. Perché un’autrice pluripremiata dovrebbe rappresentarlo come un sermone in favore della violenza?
Forse per lo stesso motivo per cui si unisce alle autorità nel delegittimare la violenza anche quando ciò permette loro di delegittimare i propri sforzi: l’influenza della Solnit nei movimenti sociali e i suoi privilegi nella società capitalista sono entrambi legati alla distinzione tra legittimo e illegittimo. Se i movimenti sociali cesseranno mai di essere gestiti dall’alto verso il basso - se smetteranno di sorvegliarsi da soli – tutti gli Hedge e le Solnit del mondo rimarranno senza lavoro sia letteralmente sia figurativamente. Ciò spiegherebbe perché ritengono che i loro peggiori nemici siano quelli che sconsigliano seriamente di non dividere i movimenti in fazioni legittime e illegittime.
È difficile immaginare che la Solnit avrebbe dipinto i “Dear Occupiers” nel modo in cui l’ha fatto se si fosse aspettata che il suo pubblico lo avrebbe letto. Vista e considerata la sua audience, questa è una scommessa abbastanza sicura: la Solnit è spesso pubblicata sui media istituzionali, mentre la letteratura CrimethInc. è distribuita solo attraverso reti popolari; in ogni caso, non ha incluso un link al testo. Chris Hedges si è preso simili libertà nel suo famoso “The Cancer in Occupy ” (“Il cancro di Occupy”), una sfilza di vergognose generalizzazioni sugli “anarchici black bloc.” Sembra che il fine ultimo di entrambi gli autori sia mettere a tacere : perché mai dovresti aver voglia di sentire cos’hanno da dire quelle persone? Sono delinquenti violenti.
Il titolo dell’articolo della Solnit è un riferimento all’influente testo di Audre Lorde, “The Master’s Tools Will Never Dismantle the Master’s House ” (“Gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone”). Il saggio della Lorde non era a sostegno della nonviolenza; persino Derrick Jensen, che Hedges cita con approvazione, ha smentito tale uso improprio di questa citazione . Qui, basti ripetere che il più potente degli strumenti del padrone non è la violenza ma sono la delegittimazione e la divisione, come sottolineato dalla Lorde nel suo testo. Per difendere i nostri movimenti da questi, la Lorde ci ha esortati:
“La differenza non deve essere semplicemente tollerata, ma vista come un fondo di polarità necessarie tra le quali la nostra creatività può innescarsi… Solo all’interno di quell’interdipendenza di punti di forza diversi, riconosciuti ed eguali, può generare il potere di cercare nuovi modi di essere nel mondo, così come il coraggio e il sostentamento di agire dove non ci sono privilegi.”
Se vogliamo sopravvivere, ciò significa:
“…imparare a stare da soli, impopolari e talvolta insultati, e come far fronte comune con gli altri identificati come al di fuori delle strutture al fine di definire e cercare un mondo in cui tutti possiamo prosperare… imparare a usare le nostre differenze e farne punti di forza. Perché gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone.”
È particolarmente vergognoso che la Solnit citi l’argomentazione della Lorde per mettere a tacere le persone allo scopo di delegittimare e dividere. Ma, forse, non dovremmo sorprenderci quando i professionisti di successo tradiscono i poveri anonimi: devono difendere i loro interessi di classe, altrimenti corrono il rischio di unirsi a noi. Ciò accade anche con i meccanismi che portano le persone a posizioni d’influenza all’interno delle gerarchie attiviste e dei media liberali; premiano la docilità, spesso codificata come “nonviolenza,” rendendo invisibili coloro i cui sforzi minacciano davvero capitalismo e gerarchia.
Il fascino della legittimità
Quando vogliamo essere presi sul serio, è allettante rivendicare la legittimità in ogni modo possibile. Ma se non vogliamo rafforzare le gerarchie della nostra società, dovremmo stare attenti a non convalidare le forme di legittimità che le perpetuano.
È facile riconoscere come tale processo funzioni in determinate situazioni: quando valutiamo le persone in base ai loro titoli di studio, per esempio, ciò favorisce la conoscenza astratta anziché l’esperienza vissuta, conferendo centralità a coloro che possono ottenere una possibilità nel mondo accademico ed emarginando tutti gli altri. In altri casi, ciò si verifica in modo più subdolo. Sottolineiamo il nostro status di organizzatori della comunità, il che implica che chi non ha il tempo o le risorse per tali attività ha meno diritto di esprimersi. Rivendichiamo credibilità come abitanti di lunga data di un quartiere, delegittimando implicitamente tutti coloro che non lo sono - compresi gli immigrati che sono stati costretti a trasferirsi nei nostri quartieri perché le loro comunità sono state distrutte da processi che hanno avuto origine nelle nostre. Giustifichiamo le nostre lotte sulla base dei nostri ruoli all’interno della società capitalista – come studenti, lavoratori, contribuenti, cittadini – senza comprendere quanto possa essere più difficile per i disoccupati, i senzatetto e gli esclusi giustificare i propri.
Siamo spesso sorpresi dalle ripercussioni. I politici screditano i nostri compagni con il vocabolario che abbiamo divulgato: “Quelli non sono attivisti, sono senzatetto che fingono di essere attivisti.” “Non stiamo prendendo di mira le comunità di colore, le stiamo proteggendo da attività criminali.” Eppure siamo stati proprio noi a spianare la strada attraverso l’affermazione di un linguaggio che condiziona la legittimità.
Quando sottolineiamo che i nostri movimenti sono e devono essere non violenti, stiamo facendo la stessa cosa. Ciò crea un Altro che è al di fuori della protezione di qualsiasi legittimità che conquistiamo per noi stessi - che è, in breve, un obiettivo legittimo per la violenza. Chiunque liberi i propri compagni dalla Polizia invece di aspettare passivamente di essere arrestato - chiunque crei degli scudi per proteggersi dai proiettili di gomma anziché lasciare le strade in mano alla Polizia - chiunque sia accusato di aggressione ai danni di un agente per essere stato aggredito da uno dei suoi colleghi: tutti questi malcapitati sono dati in pasto ai leoni come quelli violenti, le mele marce. Coloro che devono indossare maschere anche durante procedimenti legali a causa del loro lavoro precario o del loro status d’immigrati sono accusati di essere un cancro, traditi in cambio di qualche briciola di legittimità dal parte dell’autorità costituita. Noi Buoni Cittadini possiamo permetterci di essere perfettamente trasparenti; non commetteremmo mai un crimine o mai ospiteremmo un potenziale criminale in mezzo a noi.
E l’Othering , l’Altro della violenza spiana la strada per la violenza dell’Othering. Coloro che subiscono le conseguenze peggiori non sono i marmocchi della classe media messi alla berlina nel corso di risse virtuali sul Web, ma le stesse persone dalla parte sbagliata di ogni altra linea di demarcazione nel capitalismo: i poveri, gli emarginati, quelli che non hanno credenziali, nessuna istituzione che li difenda, nessun incentivo a giocare ai giochi politici che sono sbilanciati a favore delle autorità e forse anche di alcuni attivisti del jet set.
La semplice delegitimazzione della violenza non basta per far sì che essa cessi. Le disparità di questa società non potrebbero essere mantenute senza di essa e i disperati risponderanno sempre agendo, soprattutto quando sentono di essere stati abbandonati al loro destino. Ma questo tipo di delegittimazione può creare un abisso tra chi è arrabbiato e chi è moralmente retto, l’“irrazionale” e il razionale, il violento e il sociale. Ne abbiamo visto le conseguenze durante le rivolte scoppiate nell’agosto 2011 nel Regno Unito, quando molti dei diseredati, nel disperato tentativo di migliorare se stessi con qualsiasi mezzo legittimo, hanno rischiato una guerra privata contro la proprietà, la Polizia e il resto della società. Alcuni di loro avevano tentato di partecipare a precedenti movimenti popolari , solo per essere stigmatizzati come facinorosi; non a caso, la loro ribellione prese una svolta antisociale che causò la morte di cinque persone e li alienò ulteriormente da altre fasce della popolazione.
La responsabilità di questa tragedia non dipende solo dai ribelli stessi, né da quelli che hanno imposto loro le ingiustizie subite ma anche dagli attivisti che li hanno stigmatizzati anziché unirsi per la creazione di un movimento che potrebbe incanalare la loro rabbia. Se non esistono legami di sorta tra chi intende trasformare la società e chi patisce maggiormente al suo interno, se non esiste nessuna causa comune tra chi è fiducioso e chi è arrabbiato, allora quando questi si ribelleranno, i primi li rinnegheranno e i secondi saranno schiacciati insieme a ogni speranza per un vero cambiamento. Nessuno sforzo per abolire la gerarchia può avere successo se si escludono chi è stato privato dei propri diritti, gli Altri.
Quale dovrebbe essere la nostra base per la legittimità, quindi, se non il nostro impegno per la legalità, per la nonviolenza o per qualsiasi altra norma che pesa sui nostri potenziali compagni? Come spieghiamo cosa stiamo facendo e perché abbiamo il diritto di farlo? Dobbiamo coniare e far circolare una valuta di legittimità che non sia controllata dai nostri sovrani, che non crei Altri.
In quanto anarchici, riteniamo che i nostri desideri e il nostro benessere e quelli dei nostri simili siano l’unica base valida per l’azione. Anziché classificare le azioni come violente o nonviolente, ci concentriamo sul fatto che estendano o limitino la libertà. Anziché insistere sul non essere violenti, noi sottolineiamo la necessità di interrompere la violenza insita nella regola dall’alto verso il basso. Questo potrebbe essere fastidioso per chi è abituato a cercare il dialogo con i potenti ma è inevitabile per tutti quelli che desiderano veramente abolire il loro potere.
Conclusione: ritorno alla strategia
Ma come possiamo interrompere la violenza della regola dall’alto verso il basso? I sostenitori della nonviolenza inquadrano le loro argomentazioni in termini strategici e morali: la violenza aliena le masse, impedendoci di costruire il “potere del popolo” di cui abbiamo bisogno per trionfare.
Alla base di tutto questo c’è un briciolo di verità. Se la violenza è intesa come uso illegittimo della forza, la loro argomentazione può essere sintetizzata come una tautologia: l’azione delegittimizzata è impopolare.
In effetti, coloro che danno per scontata la legittimità della società capitalista sono propensi nel vedere come violenti tutti coloro che adottano misure materiali per contrastare le loro disparità. La sfida che dobbiamo affrontare è pertanto quella di legittimare forme concrete di resistenza: non sulla base del fatto che sono non violente ma per il fatto che stanno liberando, che soddisfano bisogni e desideri reali.
Questa non è una questione da poco. Anche quando crediamo profondamente in ciò che stiamo facendo, se non è ampiamente riconosciuto come legittimo, tendiamo a farfugliare quando ci viene chiesto di spiegarci. Se solo potessimo rimanere entro i limiti prescritti per noi all’interno di questo sistema mentre lo rovesciamo! Tentativi di far ciò hanno caratterizzato il movimento Occupy: i cittadini insistevano sul loro diritto di occupare i parchi pubblici sulla base di oscuri cavilli legali, adducendo scuse intricate che non sono riuscite a convincere né i passanti né le autorità. La gente vuole porre rimedio alle ingiustizie che la circonda ma in una società altamente regolamentata e controllata si sente autorizzata a fare ben poco. La Solnit potrebbe avere ragione sul fatto che l’enfasi sulla nonviolenza sia stata essenziale per il successo iniziale di Occupy Wall Street: le persone vogliono avere la certezza di non dover lasciare le proprie zone di comfort e che ciò che fanno sarà significativo per tutti gli altri. Ma capita spesso che i presupposti per un movimento diventino limitazioni che devono da questo essere trascese: Occupy Oackland ha continuato a essere attiva dopo la scomparsa di altre occupazioni perché ha abbracciato una varietà di tattiche, non nonostante questo. Allo stesso modo, se vogliamo davvero trasformare la nostra società, non possiamo rimanere per sempre entro i limiti angusti di ciò che le autorità ritengono legittimo: dobbiamo estendere la gamma di ciò che le persone si sentono in diritto di fare.
Tutta la copertura mediatica nel mondo non ci aiuterà se non riusciremo a creare una situazione in cui le persone si sentano in diritto di difendere se stesse e di difendersi a vicenda.
Legittimare la resistenza, espandere ciò che è accettabile, all’inizio non sarà popolare - non lo è mai, proprio a causa della tautologia sopra esposta. Ci vuole uno sforzo costante per cambiare la narrazione: affrontare con calma lo sdegno e le recriminazioni, enfatizzando umilmente i nostri criteri per ciò che è legittimo.
L’utilità di questa sfida dipende dai nostri obiettivi a lungo termine. Come sottolineato da David Graeber, i conflitti sugli obiettivi spesso si travestono da differenze morali e strategiche. Fare della nonviolenza il principio centrale del nostro movimento ha senso se il nostro obiettivo a lungo termine non è quello di sfidare la struttura fondamentale della nostra società ma è quello di costruire un movimento di massa in grado di esercitare la legittimità come definita dai potenti - e che, di conseguenza, è preparata alla sorveglianza stessa. Ma se vogliamo davvero trasformare la nostra società, dobbiamo trasformare la narrazione della legittimità, non solo porci al suo interno come esiste attualmente. Se ci concentriamo solo su quest’ultimo, scopriremo che il terreno si sgretola costantemente da sotto i nostri piedi e che molti di quelli con cui abbiamo bisogno di trovare una causa comune non potranno mai condividerla con noi.
È importante tenere discussioni strategiche: allontanarsi dalla narrazione della nonviolenza non significa che dobbiamo approvare ogni singola finestra rotta come una buona idea. Ciò ostacolerà questi dibattiti solo quando le persone dogmatiche insisteranno sul fatto che tutti coloro che non condividono i loro obiettivi e le loro ipotesi - per non dire i loro interessi di classe! - non hanno alcun senso strategico. Inoltre, non è strategico concentrarsi sulla delegittimazione degli sforzi reciproci anziché coordinarsi per agire insieme laddove si sovrappongono. Questo è lo scopo di affermare una varietà di tattiche: costruire un movimento che abbia spazio per tutti noi che non lasci però spazio al dominio e al silenzio - un “potere del popolo” che può sia espandersi sia intensificarsi.
Ulteriori letture
Debating Tactics: Remember to Ask, “What Works?” (Tattiche /per dibattere: ricordati di chiedere: “Cosa funziona?”) Historicizing “Violence”: Thoughts on the Hedges/Graeber Debate (Storicizzare la “violenza”: pensieri sul dibattito Hedges / Graeber)
“Chi ha affermato che la rivoluzione egiziana era pacifica non ha visto gli orrori che la Polizia ci ha inflitto, né ha visto la resistenza e nemmeno la forza che i rivoluzionari hanno usato contro la Polizia per difendere le loro occupazioni e i loro spazi temporanei: per ammissione del Governo stesso, 99 stazioni di Polizia furono date alle fiamme, migliaia di autopattuglie furono distrutte e tutti gli uffici del partito al potere in Egitto furono bruciati. Furono erette delle barricate, gli agenti furono respinti e bersagliati da pietre anche mentre ci tiravano lacrimogeni e ci sparavano… Se lo Stato si fosse arreso subito, saremmo stati felicissimi ma mentre cercavano di abusare di noi, di picchiarci, di ucciderci, sapevamo che non c’era altra scelta se non combattere.”
- Dichiarazione di solidarietà dal Cairo a Occupy Wall Street, 24 ottobre 2011
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Osservate il modo in cui gli agenti di Polizia accusano regolarmente gli arrestati di qualsiasi tipo di violenza di cui sostengono di essere stati vittime. Pertanto, quando una fascia abbastanza ampia della popolazione s’impegna nella resistenza, le autorità devono ridefinirla come non-violenta anche se, in precedenza, sarebbe stata considerata violenta. Altrimenti, la dicotomia tra violenza e legittimità potrebbe crollare - e, senza quella dicotomia, sarebbe molto più difficile giustificare l’uso della forza contro coloro che minacciano lo status quo. Allo stesso modo, più cederemo a ciò che permettiamo alle autorità di definire violente, più passeranno in quella categoria e maggiore sarà il rischio che noi tutti dovremo affrontare. Una conseguenza degli ultimi decenni di sedicente disobbedienza civile non-violenta è che alcune persone considerano violento il semplice alzare la voce; questo rende possibile inquadrare come criminali violenti anche coloro che intraprendono misure più sperimentali per proteggersi dalla violenza della Polizia. ↩
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Per quel che vale, anche se la Solnit sostiene che “non sembriamo disposti ad agire,” gli autori di “Dear Occupiers” e di questo testo sono tutti partecipanti di lunga data ai movimenti sociali, la maggior parte dei quali vive ben al di sotto della soglia di povertà lontano da Mecche liberali come la sua San Francisco. Quest’argomento ci tocca molto da vicino: molti di noi hanno dovuto affrontare accuse di rivolta - chi per aver avuto relazioni pubbliche durante una manifestazione contro la gentrificazione, chi per essere stato attaccato dai poliziotti durante un corteo - e molti di noi hanno amici fraterni in prigione. Scegliamo di scrivere in forma anonima sia perché, non essendo giornalisti professionisti, non possiamo contare sul fatto che non verremo discriminati dai datori di lavoro per le nostre convinzioni politiche, sia perché queste opinioni attirano un’attenzione più ostile da parte delle autorità rispetto a quelle della Solnit o di Hedges ma soprattutto perché non desideriamo costruire le nostre carriere o la nostra fama individuale sui nostri tentativi di cambiare il mondo. ↩