Undici anni fa, il 15 marzo 2011, sono scoppiate le proteste in Siria contro il regime di Bashar al-Assad. Gli anni seguenti hanno visto una rivoluzione che ha strappato gran parte del paese dal controllo di Assad. Tuttavia, quando i governi di tutto il mondo sono intervenuti per sostenere le varie fazioni, la lotta è diventata sempre più violenta, culminata da un lato con l’ascesa dello Stato Islamico, dall’altro con l’intervento del governo russo per permettere ad Assad di mantenere il potere ad un costo enorme in vite umane. Milioni di siriani sono stati costretti a fuggire.
A Parigi, alcuni esuli della rivoluzione siriana hanno fondato la Cantine Syrienne, un centro collettivo che fornisce uno spazio per i movimenti sociali e organizza eventi per riunire rivoluzionari e persone che si organizzano dal basso di tutto il mondo. Nell’intervista che segue, i partecipanti raccontano in che modo si sono politicizzati nel corso della rivoluzione, descrivono le sfide dell’organizzarsi in un nuovo paese e analizzano le radici di un falso “antimperialismo” che mette a tacere le voci delle persone di cui pretende di difendere gli interessi. In un tempo in cui milioni di persone sono spinte all’esilio dall’Afghanistan all’Ucraina, dal Sudan a Haiti, questo testo rappresenta un documento inestimabile su come i rifugiati possono continuare ad organizzarsi in nuovi contesti, su come la gente del posto può aiutare a renderlo possibile e sul significato della solidarietà internazionale.
Per prima cosa, potete presentare il progetto della Cantine Syrienne?
L–: Alcuni di noi si sono incontrati durante l’occupazione dell’Università Parigi 8 nel 2018, per chiedere la regolarizzazione collettiva degli immigrati senza documenti che vivevano per strada quell’inverno. Alcuni di noi hanno aiutato con la traduzione in arabo, altri con la cucina, altri ancora con la mediazione e la negoziazione. Quello è stato il primo incontro decisivo tra alcuni francesi e siriani che ora sono membri della Cantine.
Qualche mese dopo ci sono state altre occupazioni universitarie, alcune incentrate sulle lotte dei rifugiati, altre su quelle degli studenti. Con un gruppo di studenti siriani abbiamo pensato che dovevamo partecipare al movimento studentesco e non limitare il nostro attivismo alla questione dei rifugiati. Abbiamo iniziato a fare interventi nei campus occupati per parlare della mobilitazione studentesca in Siria durante la rivoluzione. Questo ha facilitato incontri e legami con i circoli della “sinistra radicale” nella regione parigina.
Alla fine del 2018 è scoppiato il movimento dei Gilet Gialli, a cui hanno partecipato siriani e francesi, poi diventati membri della_Cantine_. Il marzo successivo, alcuni compagni coinvolti nei Gilet Gialli di Montreuil ci hanno invitati, in occasione dell’anniversario della rivoluzione siriana, per parlare dell’autorganizzazione e delle lezioni che potevamo condividere rispetto alle nostre esperienze per la rivolta che si stava ampliando in Francia. Per noi è diventato chiaro che volevamo organizzarci a Montreuil, soprattutto perché stavamo finendo gli studi e volevamo continuare la nostra attività politica oltre il movimento studentesco e le lotte dei rifugiati.
La Cantine Syrienne è nata dal nostro desiderio di creare uno spazio di auto-organizzazione dei rifugiati e dal bisogno di ricreare un senso di “casa” per noi in Francia.
D–: Volevamo continuare la rivoluzione, continuare il nostro percorso perseguendo i nostri obiettivi dalla rivoluzione siriana. Non vogliamo rassegnarci, rimanere calmi e tranquilli una volta in esilio. In Francia è possibile fare molte cose, ci sono molti movimenti politici e comunità con cui possiamo organizzarci e condividere esperienze per costruire solidarietà e dimostrare che la libertà è possibile. La gente in Francia ha molta esperienza nelle attività rivoluzionarie. Inoltre, volevamo mostrare che c’è un’alternativa sia ad Assad sia agli islamisti.
L–: Cuciniamo tre volte alla settimana e condividiamo il nostro patrimonio culinario – attraverso lezioni di cucina, per esempio. Allo stesso tempo, organizziamo concerti, proiezioni di film, esposizioni e altri eventi. L’idea era di articolare connessioni tra diverse sfere: uno spazio culturale per l’aiuto reciproco e la solidarietà transnazionale. Così, abbiamo corsi di lingua in arabo e francese. Organizziamo regolarmente anche discussioni – per esempio sui legami tra le lotte siriana e palestinese, o le recenti mobilitazioni in Sudan contro il colpo di stato militare, o gli incontri con i compagni in esilio dall’Afghanistan per informarci sulla situazione lì. Tutte le nostre attività sono gratuite o a offerta libera. Infine, abbiamo due grandi eventi annuali: uno è l’anniversario della rivoluzione siriana e l’altro è il nostro festival internazionalista, “Les Peuples Veulent”, dove invitiamo compagni da tutto il mondo. All’ultimo, nel novembre 2021, hanno partecipato compagni e compagne da India, Cile, Grecia, Iran, Sudan, Libano e Stati Uniti. Abbiamo discusso le potenzialità del femminismo internazionale, dibattuto vecchie e nuove forme di internazionalismo e confrontato ipotesi rivoluzionarie. Attualmente stiamo preparando la quarta edizione del festival.
La nostra sede è in un centro sociale auto-organizzato chiamato AERI [Ateliers d’expérimentations révolutionnaires et imaginaires, “Laboratorio di sperimentazione rivoluzionaria e immaginaria”]. È uno spazio di solidarietà e mutuo aiuto che coinvolge decine di altri collettivi e realtà. Persone di diverse nazionalità e provenienze si incontrano e si organizzano in questo spazio. Tutto è gratuito o a offerta libera. Ci sono attività come yoga o arti marziali femministe, laboratori di stampa 3D e di coding, una panetteria, un laboratorio fotografico e molto altro. Chiaramente ci sono anche collettivi come i Gilet Gialli, che hanno una loro mensa, e le Brigate di Solidarietà Popolare, che sono state molto attive nel lavoro di mutuo soccorso durante il lockdown. Ci sta bene essere in mezzo a questa diversità di pratiche e approcci; questo spazio ci dà l’opportunità di ancorare noi stessi e il nostro lavoro nel territorio attivo e ribelle di Montreuil e di contribuire alla costruzione dell’autonomia locale qui. Ci dà anche l’opportunità di incontrare una vasta gamma di persone, dai vicini di casa che non hanno relazioni con nessuna comunità politica ma sono curiosi di scoprire lo spazio agli attivisti politici coinvolti in lotte legate alla migrazione o al diritto alla casa.
Organizziamo regolarmente anche eventi con collettivi francesi o con attivisti rifugiati/esiliati in Francia. L’anno scorso siamo stati alla ZAD di Sacaly e alla fattoria Longo Mai nel sud. Infine, lavoriamo con diversi collettivi e gruppi a livello internazionale: abbiamo iniziato a costruire una piccola rete grazie al nostro festival internazionalista annuale.
È così che ci siamo conosciuti e abbiamo cominciato a lavorare insieme.
Uno dei miei sogni è quello di partecipare alla creazione di una sorta di movimento dal basso per l’auto-organizzazione dei rifugiati. Non solo i siriani in Francia, ma altre nazionalità – e perché no, su scala europea, per cominciare. Come un’internazionale delle persone in esilio!
D–: Un giorno, ci piacerebbe vedere la_Cantine_ all’interno di una Siria libera. Intanto è appena nata una Cantine Syrienne in Lussemburgo. Siamo così contenti e orgogliosi che il nostro progetto sia stato in grado di ispirare le persone in un altro paese. Speriamo che altre Cantine Syrienne fioriscano in tutto il mondo!
L–: La prossima volta che ci sarà una rivolta popolare in Siria, speriamo che il nostro lavoro contribuisca a diminuire l’indifferenza del mondo, in modo che l’abbandono che la Siria ha subito dal 2011 in poi non si ripeta.
Quali erano le vostre esperienze con la politica in Siria prima della rivolta?
L–: Quando sono scoppiate le prime proteste, avevo 18 anni. Non credo che sarei stata politicamente attiva come lo sono oggi, se non fosse stato per la rivoluzione siriana. Prima della rivoluzione, dicevo che odiavo la politica; la intendevo esclusivamente sotto forma di politica dello stato, e quindi piena di bugie e inganni. La politica in Siria prima della rivoluzione era quasi esclusivamente dominio del governo. Inoltre, la propaganda e la sorveglianza del regime erano ovunque, non si poteva sfuggire. Abbiamo dovuto sopportarla fin dai primissimi anni della scuola elementare (eravamo tutti costretti a essere membri del partito Ba’ath). Volevo ribellarmi a ciò che percepivo come autoritario, anche se all’epoca non ero in grado di definirlo tale. Per me era più uno stile, o un rifiuto istintivo dell’autorità estremamente punitiva e incompetente con cui avevamo a che fare a scuola e più in generale nella società. A 17 anni sono stata cacciata dal liceo dopo aver avuto una discussione con l’insegnante di “nazionalismo”. Il giorno dopo, il preside della scuola mi disse che alcuni genitori dei miei compagni avevano chiamato per dire che minacciavo l’educazione dei loro figli. La mia famiglia di classe medio-bassa era politicizzata, ma l’ho capito davvero solo dopo la rivoluzione.
D–: Ho lavorato nel campo dello sport. All’inizio ero un’allenatrice, poi ho iniziato a ricoprire mansioni di coordinamento e di ufficio per diverse realtà: l’associazione sportiva delle donne arabe e l’associazione siriana di calcio femminile. Ho avuto un impegno clandestino in un partito politico negli anni ‘80.
A–: Negli anni ‘80, se eri coinvolto in qualsiasi tipo di attività politica al di fuori di ciò che il governo permetteva nel quadro del partito unico, o se volevi disobbedire alla linea del partito, non avevi diritto a una vita normale. Mio padre era attivo in un movimento di sinistra. A causa delle sue attività, entrambi i miei genitori avevano difficoltà a trovare lavoro. Ho iniziato a frequentare le riunioni del partito in cui era coinvolto mio padre. Ho anche partecipato a tavole rotonde e all’organizzazione di manifestazioni a sostegno dei paesi arabi. Abbiamo protestato in sostegno alla Palestina e poi all’Iraq, visto che erano le uniche manifestazioni che ci era permesso fare. Durante le manifestazioni, cantavamo slogan contro i capi di stato arabi, ma in parte erano rivolti anche al regime. Anche se il partito in cui ero coinvolto divenne pubblico, molte attività militanti dovevano rimanere clandestine. All’università era molto difficile essere politicamente attivi; i sindacati studenteschi erano controllati dal regime e molto sorvegliati.
R–: Come molti siriani prima dello scoppio della rivoluzione, le mie attività si limitavano a timide critiche al regime nello spazio privato della famiglia. Mio padre è un ex oppositore del regime; sono cresciuto circondato da ex attivisti comunisti ed ex prigionieri.
Ho capito subito che le persone rischiavano la vita se si impegnavano in politica, data la sorveglianza e la repressione. Quando ho saputo per la prima volta del massacro di Hama, avvenuto nel febbraio 1982, ordinato da Hafez al-Assad, avevo nove anni. Ho visto i segni di proiettili sul muro di Hama e ho chiesto a mio padre di parlarmene, e lui mi ha raccontato la storia. Il giorno dopo, alla scuola elementare, dovevamo come ogni giorno celebrare Hafez al-Assad con alcuni slogan. Ero così sconvolta che ho detto alla mia amica di Hama che non doveva cantare i canti di propaganda a causa del massacro che Hafez aveva commesso nella sua città. Qualche ora dopo, il padre della mia amica ha chiamato mio padre e gli ha chiesto di farmi tacere. Le persone avevano paura l’una dell’altra.
Storie di repressione, prigionia e massacri hanno alimentato un odio profondo verso qualsiasi autorità che riduce la vita alle sue dimensioni di base (lavorare, mangiare, dormire) e annienta ogni pensiero creativo e critico.
Quali erano i vostri punti di vista sulla rivoluzione siriana?
L–: Ricordo che quando sono iniziate le proteste in Tunisia e in Egitto, non potevo nemmeno concepire la possibilità di una rivolta in Siria. Pensavo tra me e me e dicevo ai miei amici: i rischi sono troppo alti. Be’, il prezzo era troppo alto, ma la rivoluzione è scoppiata in Siria. Nei primissimi mesi, alcuni amici sono stati arrestati e torturati e hanno dovuto lasciare il paese. Non ho partecipato alla parte organizzativa, avevo troppa paura di finire in prigione… lo stupro è una pratica comune nelle prigioni di Assad.
A–: Ho partecipato alle manifestazioni a Douma, un sobborgo di Damasco. In aprile, quando sono tornato nella mia città natale, sono stato interrogato dalla polizia e poi rilasciato. All’inizio, non hanno arrestato molte persone che, come me, erano in partiti politici. Penso fosse una strategia per capire chi erano le persone che organizzavano le proteste. Poi sono stato inserito nella lista nera del regime e cacciato dall’università. Sono andato ad Aleppo e mi sono unito alla lotta clandestina. Ho fatto lavoro di documentazione e umanitario.
D–: All’inizio di questa rivoluzione ero molto orgogliosa. Provavo una profonda gratitudine e rispetto per i bambini di Daraa, tra i primi a chiedere la caduta del regime e che alla fine hanno cambiato la storia del paese. Ho contribuito, insieme a molti atleti, a denunciare gli orrori del regime, formando un gruppo chiamato Free Syrian Athletes Association. Siamo stati in grado di scrivere alla Federazione Internazionale e fornire immagini e documenti che mostravano come il regime stava facendo pressione su noti atleti popolari, cercando di strumentalizzarli per delegittimare e sopprimere le manifestazioni.
Il regime ha trasformato lo stadio Abbasieen di Damasco in una base militare. Abbiamo sentito storie terribili sulla repressione che avevano luogo lì. Il regime voleva cambiare l’identità dei luoghi così come l’identità degli individui.
Se torniamo ai principi fondamentali degli sport olimpici, troviamo la pace e la riconciliazione. Troviamo il rifiuto della discriminazione. Con la Free Syrian Athletes Association siamo riusciti a impedire ai rappresentanti del Comitato Olimpico Siriano di partecipare alla conferenza del Comitato Olimpico Internazionale, per aver violato la Carta Olimpica.
Penso che la rivoluzione sia un modo di vivere in cui si lotta per ciò che è giusto contro tutto ciò che è diventato obsoleto, tutto ciò che si è dimostrato disfunzionale, non più valido. È un mezzo per ottenere più giustizia, per poter vivere in un mondo più bello. La rivoluzione siriana è stata una necessità, è un grido locale da una delle più antiche capitali della storia contro la tirannia e ogni forma di dittatura.
R–: Quando le rivolte hanno iniziato a diffondersi nel mondo arabo, siamo rimasti inchiodati alla televisione a guardare le notizie. La loro causa era la nostra. Abbiamo condiviso la stessa esperienza di vita sotto diversi regimi repressivi. Ricordo ancora la mia famiglia versare lacrime quando c’è stata la prima manifestazione a marzo in Siria. Non avremmo mai pensato che sarebbe stato possibile.
Un processo di coordinamento e organizzazione del movimento è emerso progressivamente a diversi livelli.
All’epoca avevo 16 anni, e con un gruppo di amici ci siamo presi la responsabilità di organizzare manifestazioni, disegnando graffiti e slogan sui muri, come scuola superiore. Saltavamo le lezioni per andare a informare a voce la gente che si sarebbe tenuta una manifestazione in quel luogo e a quell’ora, evitando di usare il telefono e altri mezzi di comunicazione che potevano essere controllati.
Un aspetto notevole della rivoluzione fu il ritorno dell’enfasi sulla scala locale, le sue particolarità e la sua influenza. Tornarono i nomi dei piccoli quartieri e delle piccole città a scapito dei grandi agglomerati. Una rivolta dal basso stava sorgendo, e i siriani non erano mai stati così uniti.
Per saperne di più sulla rivoluzione siriana, consigliamo i seguenti libri:
- Burning Country: Syrians in Revolution and War, Leila al-Shami e Robin Yassin-Kassab
- The Syrian Revolution: Between the Politics of Life and the Geopolitics of Death, Yasser Munif
- Siria, la rivoluzione impossibile, Yassin al-Haj Saleh
Perché alla fine siete dovuti fuggire dalla Siria? Com’è stata la vostra esperienza di rifugiati?
D–: La decisione di fuggire è diventata inevitabile, soprattutto dopo aver ricevuto una minaccia diretta che mi ordinava di rimanere in silenzio e di abbandonare tutte le attività di organizzazione. Sentivo di essere in pericolo ed ero preoccupata per la sicurezza dell’unica figlia che avevo. Così me ne sono andata.
A–: Nel 2013, con l’ingresso di Da’esh nel conflitto, avevo due scelte: prendere le armi o andarmene, così me ne sono andato.
L–: Ho dovuto fuggire perché la mia famiglia ha deciso che non era più sicuro per noi rimanere. Ho cercato di convincermi che ero in grado di vivere in Siria anche se i miei familiari più stretti se ne erano andati, ma non era molto ragionevole.
Ricordo che ho passato metà del mio colloquio d’asilo con le autorità francesi dell’immigrazione a trattenere le lacrime. Era così estenuante dover dimostrare a persone che probabilmente non avevano mai messo piede nel mio paese, che probabilmente non sapevano nulla della rivoluzione e di cui non fregava un cazzo dell’emancipazione nella nostra regione, che io venivo davvero dal posto da cui provengo e che sarei stato in pericolo se fossi tornato lì.
Era il 2015. Degli amici mi hanno persino consigliato di fare delle foto con “figure note della rivoluzione siriana” per dimostrare alle autorità francesi che il regime di Assad mi considerava “pericoloso” e, come tale, “qualificato” per lo status di rifugiato.
La mia esperienza di rifugiato è il risultato della burocrazia statale e della discriminazione; è un’esperienza di perdita e sradicamento. C’è un momento che non dimenticherò mai. Quando richiedi asilo in Francia, ricevi una lettera che ti informa che il tuo passaporto (che dovevi presentare al governo come prova della tua nazionalità) è conservato nell’“archivio” dell’ufficio immigrazione. Quando ho ricevuto quella lettera, ho immaginato una sala molto grande con passaporti stipati uno accanto all’altro. Mi chiedo ma che cazzo ci fanno con tutti quei passaporti?
Comunque, questo non è un romanzo – ma al di là del processo amministrativo kafkiano, umiliante e razzista in cui passi la notte fuori ad aspettare in fila sperando di ottenere un appuntamento al mattino, mentre i poliziotti ti urlano contro e minacciano di rimandarti “al campo” se non stai correttamente in fila… al di là di tutto questo, è sempre importante ricordare che chiedere asilo significa lasciare che uno stato decida se hai il diritto di esistere in una data parte del mondo. Invito le persone che vivono l’esperienza di chiedere asilo a riflettere non solo sulle frontiere ma anche sullo stato come istituzione che si concede prerogative ridicole.
Tuttavia, non ho dovuto camminare né attraversare il mare per raggiungere la Francia. Le persone che sono passati da quelle strade hanno storie più orribili da raccontare.
Tuttavia, sia ben chiaro, i rifugiati siriani in Francia e in altri posti in Europa sono più o meno “privilegiati” rispetto ad altre nazionalità e colori della pelle. L’accesso allo status di rifugiato è più facile per i siriani che per le persone provenienti da Ciad, Etiopia, Sudan, Afghanistan e altri posti. Di nuovo, questa è una conseguenza del potere dello stato di determinare da quali posti si ha il diritto di fuggire e quali posti sono considerati non “rappresentare un pericolo sufficiente”. È semplicemente assurdo!
Quando siete arrivati in Francia, cosa avete trovato? Quanto le comunità politiche francesi hanno capito cosa stava succedendo in Siria?
L-: All’inizio, quando abbiamo dato avvio alla_Cantine_, alcune persone sono venute a chiedere “Cosa possiamo fare per aiutare i rifugiati siriani? Posso portare dei vestiti!”, anche se avevamo detto molto chiaramente che stavamo creando una mensa popolare in quartiere. Era difficile per la gente concepire i rifugiati siriani come attori che possono esprimere solidarietà e non semplicemente come coloro che la ricevono.
In Francia ho trovato una scena militante molto vivace, soprattutto dopo il 2016 e la mobilitazione contro la loi travail. Oggi è diverso; penso che i gruppi radicali francesi siano ridotti al minimo dopo l’esplosione del movimento dei Gilet Gialli, che ha beneficiato immensamente degli ambienti autonomi, anarchici e anti-autoritari, ma che alla fine ha posto questioni molto serie – anche impasse – in relazione all’organizzazione e alla strategia nei movimenti sociali. La repressione è stata molto grave. Oggi, sono necessarie altre ipotesi per riprendersi le strade in un modo che rappresenti una minaccia per il governo.
Un aspetto notevole in Francia, al di là del lato insurrezionale dei circoli radicali, sono i movimenti comunalisti, sia che si tratti delle diverse ZAD [Zone à Défendre, “Zone da difendere”] sia di diversi progetti e iniziative locali in territori attivi e politicizzati in tutta la Francia. Noi ci siamo ispirati a una mensa popolare di Parigi, la cantine des pyrénées. Alcuni di noi erano abituati a cucinare lì e un membro della Cantine Syrienne prendeva lezioni di francese lì e aiutava a cucinare. È un posto stupendo e ogni quartiere ha bisogno di un luogo di solidarietà come questo, così abbiamo creato il nostro progetto a Montreuil.
Abbiamo imparato molto dagli attivisti francesi: la libertà che hanno permette loro di pensare e praticare cose inimmaginabili per noi prima della rivoluzione. Per alcuni di noi, essere in Francia ha significato anche essere esposti per la prima volta alla letteratura e alle idee anarchiche o antiautoritarie. Chiaramente, alcuni siriani coinvolti nell’autorganizzazione non definivano le loro attività con questi nomi. Parlando con i compagni qui in Francia, ci siamo resi conto che quello che stavamo facendo in Siria era quello che i movimenti autonomi sognavano di fare in Francia. C’è stato un periodo in cui abbiamo dovuto armonizzare le nostre concezioni rispetto a quello per cui lottiamo e quello che vogliamo. Ad un certo punto, siamo riusciti ad arrivare a questo: i consigli locali in Siria come una forma moderna della Comune di Parigi.
Ora parliamo degli aspetti meno positivi.
La maggior parte delle persone simpatizzava con i siriani, avendo in mente immagini di bambini uccisi e di edifici distrutti. Per un periodo di tempo, evitavo di dire che venivo dalla Siria, perché a volte questo scatenava una sorta di reazione “Oh, poverina”. Quando lo senti regolarmente, diventa davvero fastidioso.
La maggior parte delle comunità politiche, soprattutto nelle prime fasi della rivoluzione, ha capito che c’era una mobilitazione pacifica in Siria e l’ha sostenuta. Alcuni circoli radicali hanno avuto problemi a chiamarla rivoluzione, però, perché le proteste non hanno immediatamente rovesciato il regime e le richieste di libere elezioni o di democrazia rappresentativa non sono state percepite come sufficientemente rivoluzionarie (perché la gente in Francia sapeva molto poco della situazione quasi totalitaria in Siria), o perché il movimento non comportava una dimensione anticapitalista. In parole povere, la rivoluzione era “impura” e non aveva una narrazione unica e definita. Alcuni militanti di sinistra, nella confusione XXI secolo, si aspettano ancora il tipo di rivolta popolare simile alle versioni asettiche dei libri di teoria o di storia.
Comunque, nei primi anni della rivoluzione, la gente sembrava capire che non si trattava di pazzi terroristi islamici per le strade della Siria. Eppure non riuscivano a percepire queste persone come potenziali compagni. La maggior parte delle persone che erano nelle strade non erano anarchici: ma in quale rivolta popolare nazionale gli anarchici rappresentano una maggioranza?
Le cose sono diventate molto più complicate quando la mobilitazione si è militarizzata. Molti ambienti radicali erano confusi e non riuscivano a prendere posizione; bisogna capire che la Francia è un paese molto islamofobico. Molte persone non riuscivano ad accettare il fatto che si può essere religiosi, musulmani, combattenti e rivoluzionari senza voler imporre la legge islamica in Siria e senza essere necessariamente più misogini di alcuni compagni maschi in Occidente.
In generale, anche nelle comunità di attivisti, le persone ignoravano l’esistenza di strutture e pratiche auto-organizzate all’interno della rivoluzione siriana. Tutti parlavano del Rojava senza capire che c’erano consigli locali, ospedali, scuole, comitati di coordinamento e centri media auto-organizzati nella maggior parte dei quartieri, paesi, villaggi e città nelle aree liberate dal regime, indipendenti dall’influenza del PKK. Nelle discussioni che seguivano le nostre presentazioni, molte persone dicevano: “Perché non avete parlato del Rojava?”
In un certo senso, avevano ragione. Il nostro silenzio sul Rojava non era completamente giustificato. Dal nostro punto di vista, l’ossessione per il Rojava comune nei circoli radicali in Occidente ci ha spinti in una strana posizione, costringendoci a dire “Ehi, esistiamo anche noi!” Rischiavamo di riprodurre gli stessi errori nella nostra analisi, comportandoci come se il Rojava e la rivoluzione siriana fossero due realtà completamente separate. Ce ne siamo resi conto e abbiamo cercato di sviluppare un discorso che ci permettesse di parlare della rivoluzione siriana senza centrare la discussione esclusivamente sul Rojava, ma allo stesso tempo senza ignorare la sua esistenza.
La maggior parte delle persone direbbe che gli eventi della rivoluzione siriana sono troppo complicati. Per dare a queste persone il beneficio del dubbio, diciamo che sì, il conflitto armato che si sta ancora svolgendo in Siria non è un argomento facile da padroneggiare. Tuttavia, questa non è una scusa per negare l’esistenza di una rivolta popolare in Siria che coinvolge la gente comune (molto coraggiosa).
Penso che questo sia quello che è successo nei circoli radicali: dalla parte curda in Rojava, le cose sembravano chiare. La maggior parte delle persone con cui ho parlato mi faceva lo stesso discorso: il Rojava era una rivoluzione in un Medio Oriente pieno di islamisti e dittatori. I punti di riferimento erano molto chiari: antifascismo, femminismo, ecologia e democrazia diretta. Ironicamente, penso che questo sia il motivo per cui alcune persone che sostenevano il Rojava sapevano così poco di ciò che stava accadendo sul terreno o dei fondamenti ideologici e della storia del PKK.
Certi circoli radicali francesi, soprattutto quelli autonomi (con poche eccezioni), erano relativamente chiusi in se stessi. Una cultura della segretezza e dell’opacità veniva portata avanti dogmaticamente in molte situazioni, cosa che rendeva facile sentirsi esclusi da molti spazi militanti; questa, più che una tattica intenzionale, spesso era un’abitudine, il che è particolarmente spiacevole. Inoltre, si sentiva subito che c’era un certo linguaggio atteso e altre forme di comportamento codificate incomprensibili per i nuovi arrivati. All’inizio, pensavo che il problema fosse il mio francese scarso; più tardi, ho scoperto che anche i francesi politicizzati e impegnati si sentono spesso esclusi nei circoli autonomi. Non è stato facile trovare un punto d’ingresso. Per quanto capisca la necessità di attività non pubbliche – visto che abbiamo passato tutta la vita in Siria sotto sorveglianza – è una vergogna la mancanza di aperture pubbliche che possano accogliere gli attivisti di altri paesi.
Nella maggior parte dei circoli radicali, era visto bene includere attivisti non francesi e specialmente non europei nei collettivi e nelle azioni francesi – era considerato un buon segno di diversità. Allo stesso tempo, c’era molto poco spazio perché gli attivisti non europei contribuissero a trasformare il discorso e la pratica militante francese. Penso che il principio di uguaglianza sia ascoltare ciò che gli attivisti di altri paesi hanno da dire, non solo in termini di storie e testimonianze, ma anche in termini di analisi, riflessione strategica ed esperienza tattica.
R–: Sono arrivato in Francia cinque anni dopo l’inizio della rivoluzione. I francesi erano divisi in termini di conoscenze e coinvolgimento nell’ambito del sostegno al movimento siriano. Da un lato c’è chi ha in mente l’immagine di una guerra e di un conflitto internazionale con migliaia di migranti che sbarcano nel loro paese. Per questa parte della popolazione, la rappresentazione dei siriani come vittime ha spinto il loro sostegno verso i settori umanitari. Questo ha contribuito a mettere da parte l’aspetto politico del movimento rivoluzionario, considerando i siriani arrivati in Francia come vittime passive che avevano bisogno di aiuto, inadatte a essere attori della vita politica.
D’altra parte, quando sono arrivato in Francia, ho incontrato un gruppo di amici anarchici fedeli alla rivoluzione. Sono politicamente coinvolti nel movimento di supporto francese e hanno una prospettiva più dal basso. Non si affidano ai media tradizionali per l’informazione, ma ascoltano i siriani – leggendo e ascoltando le loro testimonianze, contattandoli e facendosi coinvolgere nelle loro lotte.
Quali sono state le cose più utili che le persone in Francia hanno fatto in solidarietà?
L–: Ci sono molte iniziative e associazioni in Francia che continuano ad accogliere i rifugiati e ad aiutare con l’alloggio, i corsi di lingua, le pratiche amministrative, l’accesso all’istruzione universitaria e così via. Sono stati aspetti decisivi e davvero utili, soprattutto nel primo periodo dopo il mio arrivo in Francia.
Sono state organizzate anche alcune iniziative per inviare aiuti umanitari e risorse a progetti all’interno dei territori liberati o assediati, soprattutto scuole e ospedali autogestiti.
Un altro aspetto utile è stata la possibilità di utilizzare spazi nei centri sociali per ospitare eventi e discussioni sulla rivoluzione siriana. Vorremmo ringraziare il Parole Errante di Montreuil, che ha aperto le sue porte ai siriani. Avere uno spazio per organizzarsi è fondamentale. Vorremmo anche ringraziare calorosamente la Maison Ouverte di Montreuil, che ha ospitato il nostro progetto nella sua fase iniziale.
Altri tipi di supporto utile sono legati ai media e all’informazione. Siti web come Lundi.am hanno fatto un ottimo lavoro nella copertura della rivoluzione siriana; la rivista CQFD ha dedicato un intero numero alla rivoluzione siriana e ha pubblicato regolarmente articoli e rapporti dal punto di vista delle mobilitazioni civili e delle forze progressiste sul terreno. Possiamo anche menzionare diverse iniziative di traduzione, che hanno lavorato per rendere la letteratura sulla rivoluzione siriana accessibile in francese.
Infine, è stato utile che alcuni gruppi abbiano ospitato conferenze, gruppi di lettura ed eventi in cui i rivoluzionari siriani sono stati invitati a condividere le loro esperienze. Questi sono stati momenti cruciali non solo per informare le persone sulla rivoluzione siriana, ma anche per darci la possibilità di incontrare persone, creando una rete di alleati e stabilendo relazioni personali tra gli attivisti.
Una delle cose che non è stata molto utile è stato parlare del “conflitto” o della “guerra” siriana per nostro conto, esclusivamente da un punto di vista geopolitico o umanitario. Entrambi i punti di vista hanno contribuito a rendere invisibile una lotta popolare che stava affrontando il regime non solo su base militare ma anche a livello della società civile. Entrambi i punti di vista depoliticizzano la resistenza e minimizzano il ruolo politico degli attori sul terreno. L’approccio umanitario si concentra sulla figura della vittima, sia che si tratti del siriano che vive la guerra sia del rifugiato che riesce a sfuggirvi – in entrambi i casi, considerato come un individuo indifeso per cui essere simpatetici (ma alla fine apatici). L’approccio geopolitico è meno empatico: le vittime della guerra e i rifugiati sono numeri in una partita di Risiko in cui ogni analisi è centrata sullo Stato, dimenticando che sono gli sforzi delle persone per vivere con dignità che contano di più.
Sulle forme occidentali di solidarietà, raccomandiamo “A Critique of Solidarity”.
In che modo le esperienze dei siriani della diaspora differiscono a seconda della classe, dell’etnia, dei legami sociali e di altri fattori?
L–: Fin dall’inizio, il regime ha cercato di usare il metodo del divide et impera per combattere la rivolta popolare. La propaganda del regime ha usato la diversità etnica e religiosa della società siriana per mettere le comunità una contro l’altra e strumentalizzare le tensioni. Quando la gente oggi definisce quello che è successo in Siria una “guerra civile”, deve tenere conto di come era nell’interesse del regime – era proprio una strategia consapevole – inquadrare la situazione in questi termini per potersi presentare come l’entità “laica”, l’unico potere che poteva garantire la pace alle minoranze etniche o religiose. In realtà, la maggior parte di noi della_Cantine Syrienne_ proviene da minoranze religiose. Il regime non ha mai protetto i nostri interessi, e se l’ha fatto in un momento particolare, è stato solo per un calcolo politico, non per una fede nel principio modernista di separazione tra stato e religione.
Dopo undici anni di conflitto armato, sarebbe ingenuo dire che non esistono tensioni tra comunità etniche o religiose. Tuttavia, insistiamo sul fatto che nei primi anni della rivoluzione, l’appoggio al regime e l’opposizione a questo non erano fondati su linee etniche o religiose. Anche oggi, in qualsiasi comunità etnica o religiosa, si trovano persone che sostengono il regime e altre che si oppongono, persino tra gli alawiti (il ramo dello sciismo che comprende la minoranza religiosa di Assad).
Tuttavia, la guerra è stata sicuramente molto più dura per le classi basse. Le conseguenze dell’inflazione hanno reso i beni di prima necessità a malapena accessibili a gran parte della popolazione. Per coloro che non hanno membri della famiglia fuori dal paese che possono permettersi di inviare denaro in valuta estera, la sopravvivenza quotidiana è estremamente critica.
Come sempre accade con le guerre, alcune classi si arricchiscono per mezzo di monopoli o creando nuovi mercati e modelli di profitto basati sulla scarsità di alcuni beni. Inoltre, la Siria degli Assad, specialmente sotto Bashar, è stata un sistema di capitalismo clientelare in cui la corruzione è incoraggiata a condizione che il regime ottenga la sua parte di profitti e mantenga il controllo politico. Questo aspetto si è intensificato nell’ultimo decennio; l’esempio più recente è la crescente industria della droga, siccome la Siria è diventata uno dei principali produttori ed esportatori della sostanza captagon, che ha contribuito a stabilizzare un po’ l’economia nazionale.
Molte delle persone che non sono riuscite ad arrivare in Europa o in altri paesi occidentali perché non hanno potuto ottenere un visto per mancanza di denaro o di legami sociali, o non hanno potuto raccogliere abbastanza denaro per trovare un mezzo di fuga illegale, con documenti di viaggio falsi o attraversando i confini illegalmente. La migrazione illegale è costosa!
Quindi i due fattori principali che determinano la possibilità di raggiungere i paesi europei sono sicuramente la classe e le connessioni sociali; questo spiega anche perché la maggior parte dei rifugiati siriani sono ancora nei paesi vicini. Ma non dimentichiamo che alcune persone hanno anche deciso di rimanere in Siria, perché si sono rifiutate di lasciare la lotta o perché si sono rifiutate di lasciare le loro case, forse per paura di sperimentare la vita senza radici di un rifugiato.
L’esperienza di essere un rifugiato è estremamente diversa a seconda che si viva in Libano o in Turchia o in Francia o in Germania. Il filo conduttore, senza dubbio, è una sorta di razzismo legato all’ambiente. Una cosa va detta in relazione all’Europa, e alla Francia in particolare: l’islamofobia è una delle principali cause di discriminazione, soprattutto per le donne. Se ti capita di essere un musulmano praticante, e se questo è in qualche modo visibile nella sfera pubblica, avrai più difficoltà come rifugiato. In Francia, questo vale anche per i cittadini francesi.
Per essere chiari: gli islamisti hanno rubato la rivoluzione in Siria e hanno fatto un danno enorme al tessuto sociale e comunitario. Sono nostri nemici tanto quanto Assad! Tuttavia, questo non deve lasciare spazio all’islamofobia, sia tra gli europei sia tra i “siriani laici”.
Chi è in Siria merita sostegno materiale, soprattutto chi è sfollato nei campi profughi in condizioni atroci, costretto a passare diversi inverni nelle tende sotto la neve con poche speranze di cambiamento. Ci sono diverse iniziative che puoi sostenere, come questa.
Oltre al sostegno materiale, c’è il riconoscimento e il sostegno morale: è importante ricordare che qualsiasi cambiamento futuro in Siria sarà prima di tutto portato avanti da coloro che sono ancora lì, anche se la diaspora avrà un ruolo importante da giocare. Dobbiamo prestare attenzione a quello che la gente lì ha da dire, alle mobilitazioni e alle iniziative che sono capaci di organizzare anche nei territori controllati dal regime.
Puoi controllare questa pagina Facebook per meme e slogan anti-regime postati anonimamente dall’interno dei territori siriani oggi controllati dal regime.
Cosa sarebbe stato necessario per un esito diverso della rivoluzione siriana?
L–: Non so se possiamo fornire un’analisi di come la rivoluzione avrebbe potuto “vincere”: siamo consapevoli che la caduta di Assad non avrebbe automaticamente portato libertà e dignità alla Siria. Siamo anche consapevoli, come alcuni di noi hanno imparato vivendo nei paesi europei, che le elezioni libere e le “transizioni democratiche” non garantiscono una democrazia funzionante in cui le persone sono in grado di determinare da sole come vivere. Gli esempi in Tunisia e, più di recente, in Sudan, ci mostrano che rovesciare il regime è solo il primo passo di una lotta molto più lunga verso l’autodeterminazione e la giustizia.
Tuttavia, possiamo descrivere alcuni elementi che avrebbero potuto ridurre le immense perdite subite e forse cambiare gli equilibri di potere a favore delle forze impegnate nell’emancipazione.
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Una no-fly zone prima dell’intervento russo nel 2015. Una no-fly zone avrebbe cambiato l’equilibrio di potere a favore dei ribelli che, nei primi anni della rivoluzione, hanno avuto la capacità, in più occasioni, di ottenere vittorie militari contro le forze del regime. La no-fly zone era stata richiesta dai civili sul territorio, non solo dai gruppi armati. Oggi, vediamo la stessa richiesta in Ucraina: “Chiudete lo spazio aereo e noi facciamo il resto”. Abbiamo a cuore la nostra autonomia e quindi rifiutiamo l’intervento esterno. Tuttavia, sappiamo che se non avessimo ricevuto barili bomba senza sosta sulle nostre teste (colpendo ospedali e scuole oltre a postazioni militari, proprio come sta accadendo oggi in Ucraina), molti di noi avrebbero potuto sopravvivere e resistere. Avremmo potuto dedicare più tempo a immaginare e attuare alternative politiche sia al regime sia agli islamisti, invece di cercare di tirare fuori i nostri cari dalle macerie delle nostre case distrutte.
Vediamo la stessa cosa oggi: una situazione in cui gli attivisti americani e altri occidentali rifiutano l’idea di un intervento militare, adducendo argomenti anti-imperialisti. Uno degli argomenti è che un intervento militare non è nell’interesse della popolazione locale. Il paradosso è lampante: mentre la popolazione locale chiede l’intervento militare, gli attivisti occidentali la cui vita non è minacciata scrivono comodamente testi contro la guerra spiegando come bisognerebbe mettere al primo posto gli interessi di quella popolazione locale che non sono pronti ad ascoltare. Paternalismo.
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Un sostegno militare più determinante: accesso a più armi difensive più rapidamente. In Siria c’è stato un enorme problema di tempistica. Quando il sostegno militare arrivava ai ribelli, era sempre troppo tardi e insufficiente, come per rendere impossibile la caduta del regime. È difficile scrivere questo testo oggi senza fare riferimenti alla situazione ucraina. Ma evitiamo per il momento i paragoni e concentriamoci sulla Siria.
C’è stata molta esitazione nel sostegno ai ribelli siriani, soprattutto dopo che l’intervento militare in Libia si è rivelato un disastro. L’esitazione e l’indecisione di vari paesi occidentali durante i primi anni della rivoluzione siriana, quando si trattava di fornire ai ribelli armi difensive che potessero contrastare gli attacchi aerei e i missili, ha aperto la strada all’intervento di altri attori, che hanno imposto la loro visione esterna di come debba essere l’opposizione armata (oltre che civile). L’esitazione dell’Occidente – che ha evitato di minacciare il regime, intervenendo con “intelligence e addestramento”, ma sempre troppo tardi – ha contribuito a prolungare il conflitto armato per anni, dando alle forze islamiste la possibilità di prendere il controllo dei territori. Il sostegno transnazionale ai gruppi armati islamisti ha superato l’aiuto materiale alla Free Syrian Army e ad altre brigate neutrali in materia religiosa.
In un certo senso, non si può dire che i paesi occidentali non abbiano effettuato un vero intervento militare in Siria. La coalizione internazionale è intervenuta per bombardare le posizioni dell’ISIS e per farlo ha ignorato tutti i trattati e i quadri giuridici. I paesi occidentali sono intervenuti in Siria per sostenere i curdi e combattere l’ISIS, ma mai per attaccare le radici del bagno di sangue, il potere di Assad. È stato Assad il responsabile di più di 90.000 delle 159.774 morti civili degli ultimi undici anni, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani (SOHR) e la Rete siriana per i diritti umani (SNHR).
Questo approccio selettivo, in cui i governi occidentali si rifiutano di agire contro Assad agendo comunque altrove in Siria, rappresenta un intervento intenzionale nel conflitto siriano.
Per quanto riguarda la famosa “red line” di Barack Obama, i rivoluzionari siriani e gli oppositori del regime di Assad considerano Obama responsabile di aver consegnato il “dossier siriano” a Putin, nella speranza che la Russia prendesse il posto degli Stati Uniti nel ruolo polizia mondiale. Nel 2013, circa due terzi dei territori in Siria erano stati liberati e si autogovernavano. Nel 2015, l’esercito russo ha iniziato a coordinare le operazioni militari del regime siriano. Il 2016, anno della caduta di Aleppo, ha segnato un punto di non ritorno in termini di equilibri di potere. La sconfitta militare divenne quasi una certezza per le forze che si opponevano al regime a causa della Russia ma anche dell’Iran e di Hezbollah.
Abbiamo vissuto con i rifugiati della guerra disastrosa che gli Stati Uniti hanno inflitto all’Iraq, e sappiamo cosa significa l’imperialismo statunitense nei nostri paesi. Tuttavia, in questo caso particolare, purtroppo, il ritiro degli Stati Uniti e di altri paesi europei dalla guerra d’influenza in Siria ha significato anni di continui massacri e, infine, la stabilizzazione e il consolidamento del dominio di Assad. Undici anni dopo, Assad è ancora al potere, nonostante sia tra i più rinomati macellai del XXI secolo.
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Avremmo dovuto allarmarci di più, e prima, per l’espansione dei gruppi islamisti. In alcuni territori, la gente ci ha messo troppo tempo a riconoscere la minaccia che i gruppi islamisti rappresentavano per la mobilitazione civile e lo spirito della rivoluzione. Nelle proteste dei primi anni della rivoluzione, ci appellavamo all’unità tra etnie e religioni contro la tirannia. La crescente presenza di gruppi islamisti ha radicalizzato l’intero territorio, per cui se si voleva ottenere sostegno finanziario o armi dai paesi vicini si doveva modificare il proprio discorso – spostandolo su un tono religioso, cambiando il nome della propria brigata o associazione, e mettendo “Dio è grande” sulla propria bandiera. I ribelli e i rivoluzionari consideravano il regime come il nemico principale, quindi combattere i gruppi e i discorsi islamisti non era sempre una priorità.
Questo è in qualche modo comprensibile, dal momento che fino ad oggi, il regime rimane la causa principale di morti e sfollati in Siria. Non dobbiamo mai dimenticare che il regime ha anche avuto un ruolo attivo nel liberare gli islamisti dalle prigioni durante la rivoluzione, e ha evitato attacchi diretti nelle loro basi. Considerando che anche i gruppi islamisti combattevano il regime, i rivoluzionari speravano che nel breve periodo gli islamisti avrebbero contribuito alla caduta di Assad e in seguito sarebbe stato possibile affrontare la presenza degli islamisti. È anche importante non dimenticare che ci sono state molte proteste, fino a oggi a Idlib per esempio, che si sono opposte sia al regime sia ai gruppi islamisti – che sono stati tirannici ovunque abbiano preso il controllo del territorio.
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Il sostegno e il riconoscimento di iniziative di autogoverno come i consigli locali sarebbe stato determinante. Era praticamente impossibile per gli stati-nazione riconoscere parti coinvolte non statali, e ancora di più riconoscere le parti auto-organizzate, decentralizzate e senza una chiara leadership (a differenza del caso curdo). Questi consigli locali erano le migliori entità che potevano rappresentare gli interessi del popolo siriano, poiché organizzavano la politica della vita quotidiana e si facevano carico della gestione dei servizi. I loro membri erano democraticamente eletti o nominati dai locali, in un modello simile al consiglio zapatista del buen governo.
Non sorprende che gli stati non abbiano voluto riconoscere queste entità – anche se i compagni avrebbero dovuto! Invece, i governi hanno simbolicamente riconosciuto la Coalizione o Consiglio Nazionale Siriano, una sorta di struttura gerarchica dall’alto che cercava di trovare soluzioni diplomatiche; i suoi membri si sono incontrati solo con i rappresentanti delle Nazioni Unite di diversi paesi e hanno tenuto una serie di colloqui che non hanno avuto praticamente alcun effetto sul territorio. Per un periodo di tempo, la Coalizione nazionale siriana ha avuto un certo sostegno da parte dei rivoluzionari, ma la speranza che il cambiamento sarebbe arrivato attraverso questi meccanismi è rapidamente svanita e gran parte dei rivoluzionari è diventata critica nei confronti di queste coalizioni, così scollegate dalla realtà.
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Più alleanze con componenti del movimento rivoluzionario curdo. Sia che si tratti della Coalizione Nazionale Siriana sia di altre entità politiche afflitte da nazionalismo e razzismo, il rifiuto di un orizzonte siriano plurinazionale e dell’idea di federalizzazione è stata un’opportunità mancata per i rivoluzionari in Siria di tutti i movimenti, curdi e non. Invece di un movimento rivoluzionario curdo costretto a essere neutrale o a cooperare con il regime di Assad, avremmo potuto immaginare le forze rivoluzionarie siriane e le forze rivoluzionarie curde unirsi sulla base di interessi comuni per rovesciare il regime. Ci sono state molte ragioni, da entrambe le parti, per cui questo non è successo. Ma per il futuro della Siria, una riconciliazione tra queste due forze rivoluzionarie è necessaria per rovesciare ogni tipo di tirannia, compreso il regime e gli islamisti, e per garantire che nessuna nuova struttura di potere repressivo possa emergere, nemmeno dal PKK o dal PYD.
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Infine, la rivoluzione sarebbe andata diversamente se la sinistra non avesse ripetuto la propaganda di Assad sull’assenza di alternativa: o si stava con Assad o si stava con gli islamisti. L’alternativa c’era! Tutto questo è difficile da spiegare ora, ma il dibattito ha sempre un ruolo fondamentale nel campo di battaglia, e la lotta e la resistenza del popolo semplicemente non avevano risonanza. Le conseguenze di ciò sono state enormi: la distorsione e la falsificazione dei fatti storici.
Oggi, se vai su Wikipedia (in inglese, per esempio), non trovi nemmeno una voce per “rivoluzione siriana”. Si trova solo “guerra civile” siriana. È uno shock violento scoprire che questo evento storico che ha cambiato la vita di milioni di persone, se non la politica in tutto il mondo, è diventato completamente invisibile. Il linguaggio usato è riduttivo e impreciso. Infatti, se vogliamo essere precisi e apartitici, il minimo che possiamo fare è riconoscere che non è stata una guerra civile ma un conflitto transnazionale, dato che praticamente tutti i governi occidentali e i potenti stati regionali o internazionali sono intervenuti in Siria in un modo o nell’altro.
In che modo continuate a organizzarvi per sostenere le persone in Siria e nella diaspora siriana oggi?
L–: Cerchiamo di fornire sostegno finanziario alle iniziative in Siria e nella regione circostante. La maggior parte di queste iniziative sono di carattere umanitario e mirano ad affrontare le dure condizioni di vita, soprattutto nei campi profughi. Abbiamo organizzato campagne nella regione parigina per raccogliere beni di prima necessità, vestiti e medicine e altre risorse per alleviare le difficoltà materiali nei periodi di intenso conflitto nei territori sotto assedio.
Organizziamo un evento annuale per celebrare l’anniversario della rivoluzione siriana: è molto importante per noi invitare relatori che si organizzano e sono attivi ancora oggi all’interno della Siria. È anche un’occasione per rinnovare l’eredità della rivoluzione siriana e parlare di aspetti che pochi qui conoscono, come l’esperienza dei consigli locali. Quest’anno terremo un discorso sull’asse della controrivoluzione, in cui cercheremo di decostruire le argomentazioni pseudo-anti-imperialiste che sostengono Hezbollah o celebrano leader come al-Sulemany senza riconoscere che quelle potenze non erano controrivoluzionarie solo in Siria ma anche, cosa più importante, in Libano o in Iran.
Per quanto riguarda la diaspora siriana, cerchiamo di fare della mensa una casa aperta e accessibile a tutti (be’, tranne ai sostenitori del regime) e un luogo di incontro per discutere di politica, organizzarsi e incontrarsi con altre comunità politiche in Francia. Crediamo che avere uno spazio fisico dove i siriani possano incontrarsi sia fondamentale in esilio: la maggior parte di noi ha parenti, amici e famiglie sparsi per il mondo, le nostre vite sono frammentate e c’è una costante sensazione di estraneità rispetto al mondo e alle altre persone, visti i nostri traumi collettivi e individuali. La Cantine Syrienne è uno spazio dove trovare tregua e rifugio.
Per noi è anche importante che questo spazio sia aperto e accogliente e accessibile ai rifugiati di altri paesi. Non vogliamo organizzarci esclusivamente tra siriani. La nostra comunità, proprio come la nostra esistenza, è diventata transnazionale e dobbiamo abbracciare questo aspetto invece di impegnarci in un processo di auto-ghettizzazione.
Infine, cerchiamo il più possibile di condividere notizie sulle mobilitazioni in Siria, per ricordare che lì si vive e ci si organizza ancora, nonostante i lunghi anni di guerra e violenza.
Avete menzionato il complesso rapporto con l’esperimento in Rojava. Molte persone ne hanno sentito parlare negli ultimi dieci anni, ma non sempre viene compreso nel contesto della rivoluzione siriana nel suo complesso. Potete descrivere come considerate questi eventi?
O–: Posso provare a rispondere da un punto di vista francese1, perché dal 2015 ho cercato di riflettere sull’entusiasmo della sinistra radicale e libertaria occidentale per il Rojava e sulle differenze tra la rivoluzione siriana e quella curda (vedi questo articolo in francese). Come sostenitore della causa curda in Turchia, all’inizio ero molto attratto dall’esperimento del Rojava, prima di restare piuttosto confuso in seguito a discussioni con i rivoluzionari siriani in esilio che avevano un punto di vista completamente diverso sull’argomento.
Secondo me, la questione non è se sostenere il Rojava e il movimento rivoluzionario curdo. Piuttosto, il problema emerge quando questo sostegno arriva a partire da una fantasia, e ancora peggio quando questo sostegno è accompagnato da una totale ignoranza del contesto in cui si è radicato e del rapporto con la rivoluzione siriana del 2011. Per cercare di capire tutto questo al fine di poter prendere una posizione, dobbiamo tornare alle differenze e ai disaccordi tra queste due rivoluzioni di tipo diverso.
Prima di parlarne nel dettaglio, c’è un aspetto fondamentale da ricordare: i curdi oppressi come minoranza etnica per decenni dal regime siriano non sono un’entità intercambiabile con il movimento rivoluzionario curdo, rappresentato dal PKK in Turchia e dal PYD in Siria, due partiti fratelli che hanno dato vita al progetto in Rojava a partire dal 2012. È importante fare questa distinzione, perché mentre molti curdi hanno partecipato alla rivoluzione siriana e contribuito con le loro esperienze di lotta politica, il PYD e il PKK sono rimasti neutrali o addirittura contrari alla rivoluzione siriana. Potremmo dire che hanno approfittato della destabilizzazione creata dalla rivolta del 2011 per dare vita al progetto di stabilire un territorio curdo autonomo organizzato secondo il principio ideologico del loro partito, il confederalismo democratico. Quasi 40.000 combattenti e quadri del PKK, formati nelle montagne di Qandil tra Iraq e Turchia, sono arrivati nei territori a maggioranza curda del nord-est della Siria nel 2012.
La ragione più importante dell’antagonismo è il rapporto del PYD con il regime assassino di Bashar: seppur i dettagli delle trattative non siano ancora chiari, sembra che all’inizio del 2012 il PYD-PKK abbia negoziato con il regime per tornare in Siria e prendere il controllo delle tre aree di insediamento curdo al confine con la Turchia – Afrin, Kobane e Cizre – in cambio della neutralizzazione dei manifestanti curdi pro rivoluzione e della promessa di non fare fronte comune con l’Esercito Libero Siriano. Arrivati pochi mesi dopo lo scoppio della rivolta, i quadri del PYD-PKK si sono spinti fino a reprimere le manifestazioni di opposizione al regime siriano.
Una volta che il PKK-PYD si è stabilito nel nord-est della Siria, un gioco di alleanze ha definitivamente sepolto la possibilità di una congiunzione tra rivoluzionari siriani e curdi. Le due parti, entrambe fortemente dipendenti dagli aiuti stranieri per garantire la loro sopravvivenza, sono arrivate a formare alleanze opposte. Il PKK ha cercato di assicurarsi la protezione russa quando la Russia stava già bombardando i ribelli siriani. Allo stesso tempo, diverse milizie dell’Esercito Libero Siriano sono state finanziate, armate e sostenute dal regime turco di Recep Tayyip Erdoğan, nemico giurato del PKK, allo scopo di isolare i curdi, considerati una delle principali minacce della Turchia, proprio come Bashar al-Assad ha fatto con i ribelli. Oggi, molti ex rivoluzionari siriani, ora al soldo della Turchia, sono usati dal regime turco per attaccare i territori curdi e commettere orribili atrocità. Considerando che nel 2013 il regime siriano era vicino al crollo, possiamo dire che l’aiuto di combattenti organizzati e militarmente addestrati avrebbe sicuramente dato il colpo di grazia a Bashar.
Molti curdi sostengono la convinzione che alla fine, anche se il regime siriano fosse caduto, sarebbero stati comunque traditi dall’opposizione siriana – non sarebbero stati in grado di attuare il loro progetto comunalista e al popolo curdo non sarebbe stata concessa autonomia o diritti. Questo dimostra che gli errori non sono stati da una parte sola. L’opposizione siriana con sede a Istanbul – criticata anche dai rivoluzionari all’interno della Siria – stava negoziando sul futuro della Siria nella convinzione che la vittoria fosse vicina, rifiutando di includere il PYD-PKK nelle discussioni e di concedere uno status protetto ai curdi. Gli elementi nazionalisti dell’opposizione siriana non volevano riconoscere le lingue diverse dall’arabo come lingue nazionali e vedevano l’idea del confederalismo come un mezzo per dividere la Siria.
Queste tensioni derivano da due visioni diverse della rivoluzione e del futuro. Il PYD-PKK persegue una visione confederalista e pluralista della Siria e della regione nel suo complesso, con un riconoscimento delle minoranze e dell’autonomia del popolo curdo. Al contrario, molti rivoluzionari siriani immaginavano la Siria del futuro come una repubblica indivisibile, ispirata da una visione repubblicana nello stile della rivoluzione francese.
Oggi la situazione è ancora peggiore: il compromesso con Bashar si è intensificato dal 2018, perché il PYD, per proteggersi dall’invasione turca e per non essere abbandonato da russi e USA, ha chiesto l’aiuto di Bashar e ha fatto molte concessioni al regime in cambio di protezione di fronte alle invasioni di Erdoğan. Di conseguenza, per esempio, diversi agenti del regime sono tornati nei territori curdi del Rojava. Ad Afrin, si vede persino l’esercito siriano sfilare con bandiere del regime e ritratti di Bashar. Nel 2021, il PYD-PKK è arrivato al punto di reprimere le rivolte e uccidere i manifestanti che protestavano contro la coscrizione obbligatoria a Manbij, una città che amministrano. Per molti rivoluzionari siriani, questo è imperdonabile.
Per concludere, penso che sia importante capire che stiamo parlando di due diversi movimenti rivoluzionari. Da un lato, la rivolta siriana, una rivoluzione popolare spontanea che ha reso possibile la politicizzazione di massa di una popolazione che, fino ad allora, aveva poco accesso a qualsiasi forma di organizzazione sociale e politica, ma che alla fine ha portato all’egemonia militare dei gruppi islamisti armati, nonché alla vittoria del regime di Bashar Al-Assad e dei suoi alleati. D’altra parte, la rivoluzione del Rojava è un caso di lotta rivoluzionaria orchestrata da un partito, il PKK, con quasi 40 anni di esperienza. Il PKK è riuscito a stimolare l’immaginazione politica popolare su scala internazionale attraverso i suoi esperimenti innovativi e la sua critica allo stato-nazione. Tuttavia, fatica a convincere le persone che i curdi non sono il centro del suo progetto, e trae ancora la sua forza dalle strategie spesso autoritarie e pragmatiche del leninismo e delle lotte di liberazione del XX secolo. Stretto tra una Turchia belligerante e un regime siriano che mira alla sua resa, il suo futuro rimane incerto.
Da parte nostra, nella Cantine Syrienne, cerchiamo di far dialogare gli attivisti delle due esperienze, purché i nostri interlocutori non neghino l’esistenza di una vera rivoluzione popolare in Siria e rispettino i sacrifici del popolo siriano nella sua lotta contro l’oppressione. Da questo punto di partenza, possiamo ascoltare un’opinione critica e aprire un dibattito sull’atteggiamento della rivoluzione siriana nei confronti dei curdi.
Quali prospettive vi sono arrivate dalle vostre esperienze sull’importanza dell’internazionalismo?
L–: Dopo la rivoluzione e la guerra in Siria, abbiamo la sensazione che come siriani comprendiamo meglio il mondo e siamo più capaci di sfatare miti come “la comunità internazionale” o l’impatto delle “Nazioni Unite” e così via. Non rifiutiamo queste entità su basi puramente ideologiche, ma sulla base della nostra esperienza, come risultato di ciò che abbiamo visto accadere mese dopo mese, mentre il mondo gradualmente chiudeva un occhio su quello che stava accadendo in Siria.
Abbiamo imparato rapidamente che non possiamo dipendere da questo tipo di istituzioni. Inoltre, anche se ci piacerebbe vivere in un mondo in cui le frontiere non ci dividano, siamo consapevoli che per il momento, dobbiamo pensare a proposte e soluzioni “intermedie”, attraverso le quali possiamo collaborare e sostenere reciprocamente le nostre lotte all’interno delle divisioni esistenti imposte dagli stati.
Comprendiamo dalla nostra esperienza della rivoluzione siriana che il conflitto che affrontiamo è transnazionale, quindi la nostra analisi e le nostre proposte per cambiare la situazione non devono limitarsi a un quadro nazionale. Avremmo voluto che i russi avessero fatto di più per opporsi all’intervento militare di Putin in Siria, che più libanesi si fossero rifiutati di mandare i loro figli a combattere con la bandiera di Hezbollah a sostegno del regime in Siria, che azioni dirette fossero scoppiate in tutte le capitali europee alla caduta di Aleppo.
Quello che è molto chiaro oggi è che la gente vuole rovesciare il sistema. Nel 2019, da Hong Kong all’Iran, le rivolte popolari sono esplose ovunque nel mondo con richieste e metodi più o meno simili. Dobbiamo fare un passo avanti, andare oltre le similitudini verso azioni coordinate e la costruzione di forze transnazionali.
Viviamo in un mondo globalizzato in cui soffriamo tutti dello stesso sistema capitalista internazionale, proprio come soffriamo della crisi ecologica, della politica nazionalista reazionaria, del patriarcato. Non soffriamo allo stesso modo, a seconda del colore della pelle, del genere, dell’orientamento sessuale e della classe, ma se decidiamo di combattere il capitalismo per cercare di creare un mondo libero da ogni tipo di dominazione e sfruttamento, non c’è alternativa che lavorare insieme. È una necessità vitale, non un lusso utopico.
L’internazionalismo a cui aspiriamo è combattivo. Non è una versione naif e depoliticizzata di “siamo tutti uniti nell’umanità”. È un internazionalismo dal basso, radicato nelle auto-organizzazioni locali e nei movimenti sociali.
Possiamo anche spiegare le nostre prospettive internazionaliste a partire dalla nostra esperienza di esilio: non essere cittadini di un paese, essere “illegali” in un luogo, ti mette dalla stessa parte di molte altre persone con le quali non avevi alcun rapporto precedente. Per esempio, quando combatti in Francia al fianco dei compagni etiopi su questioni relative all’asilo, la tua prospettiva non è più la stessa. Non puoi tornare a vedere il mondo dal punto di vista del tuo paese d’origine o da quello del tuo “paese ospitante” – hai qualcos’altro, un punto di vista da cui puoi decostruire il nazionalismo tossico.
O–: Personalmente, ho davvero cercato di capire perché la rivoluzione siriana ha ricevuto così poco sostegno in Francia. Ci sono diversi fattori coinvolti: la complessità del conflitto, la mancanza di legami preesistenti con gli attivisti siriani, un razzismo latente, la mancanza di punti di riferimento comuni, la propaganda del regime siriano e dei suoi surrogati in Francia, e così via.
Inoltre, in Francia, l’internazionalismo è molto debole. Anche negli ambienti anarchici o autonomi, c’è una mancanza di interesse per le rivolte internazionali (con l’eccezione del Rojava, degli zapatisti e della Palestina). Non è un caso che non ci siano articoli nella stampa francese sul nostro festival Les Peuples Veulent o, più in generale, sulla Cantine Syrienne, mentre ci sono già articoli in arabo o in inglese, per esempio.
Purtroppo, coloro che esprimono con più forza una posizione internazionalista e antimperialista hanno spesso posizioni sbagliate – per esempio, Jean-Luc Mélenchon, che ha sostenuto Putin in Siria, o gruppi che sostengono regimi o gruppi controrivoluzionari e assassini come Hezbollah o il regime iraniano.
Per me, la rivoluzione siriana è stata un’incredibile fonte di ispirazione. Quello che si impara lì è la prova che l’internazionalismo è ricco di lezioni anche per te a casa tua. Credo che ogni rivoluzionario che pensa a come fare una rivoluzione nel XXI secolo debba fare uno sforzo per cercare di capire gli errori e i successi delle rivolte degli ultimi dieci anni e di quelle che verranno.
Dopo aver sperimentato la mancanza di sostegno da parte della sinistra radicale in Francia, mi sono detto che non doveva più succedere, che non potevamo più permetterci di dare così poco sostegno a rivolte come questa. Per questo cerchiamo di essere reattivi alla situazione in Ucraina, di pensare a come non lasciare i compagni lì isolati, di far sentire la loro voce e le loro posizioni. Crediamo che le lezioni siriane, soprattutto in termini di reazione internazionale, abbiano molto da dirci su ciò che accadrà in Ucraina e su ciò che possiamo fare dall’esterno. Questo è il motivo per cui abbiamo scritto un articolo al riguardo.
Come possiamo combattere le false nozioni di “antimperialismo” che servono a legittimare governanti come Assad? Da dove vengono e cosa c’è alla loro radice?
O–: In Francia, una certa sinistra radicale difende spesso le politiche di Putin, del regime iraniano, del partito libanese Hezbollah e quindi, implicitamente, del regime siriano, anche se è più difficile farlo apertamente.
Oltre a combatterli, credo che sia importante capire le radici di queste posizioni perché le incontriamo in relazione a diversi conflitti nel mondo – e potremmo incontrarle ancora di più negli anni a venire, soprattutto dopo l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin.
Secondo noi, questo tipo di “antimperialismo” ha due diverse origini. In primo luogo, deriva da una visione ereditata dal “campismo” della guerra fredda. Durante la Guerra Fredda – gli anni del “terzomondismo” – c’era un’attenzione ideologica a sostenere gli attori vicini al socialismo (i sovietici, Cuba, il FLN algerino, l’OLP palestinese, e simili) contro gli interessi espansionistici del blocco “capitalista” dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti. Il problema è che trent’anni dopo la fine della guerra fredda, molte entità della sinistra radicale rimangono bloccate in questa visione ereditata da un altro secolo.
In un contesto in cui questi gruppi non sono più legati a stati o organizzazioni ideologicamente vicini a loro, questa dottrina si è trasformata nell’idea che si dovrebbe sostenere qualsiasi oppositore dell’imperialismo americano e occidentale – tanto più se è francese o americano, per esempio. Gli aderenti a questo approccio lo mantengono anche quando l’avversario è belligerante, totalitario o tirannico e massacra il suo stesso popolo, come fanno i regimi cinese, iraniano, siriano e russo.
Oggi, questa visione risponde in modo semplicistico e opportunistico all’espressione “i nemici dei miei nemici sono miei amici”. Trascura totalmente la possibilità che si possa sposare una posizione antimperialista (come facciamo noi) rifiutando l’espansionismo occidentale (come in Libia, Mali, o Iraq, per esempio) ma rifiutando allo stesso tempo l’espansionismo di regimi come la Russia o l’Iran. Per esempio, come hanno fatto i rivoluzionari iracheni durante la rivolta del 2019, cantando “né USA né Iran”.
L’altro punto di origine di questo falso “antimperialismo” è il modo in cui la causa palestinese è stata associata all’autoproclamato “asse della resistenza” a Israele, presumibilmente impersonato dal regime iraniano, dalla Siria e dagli Hezbollah libanesi. Di conseguenza, in Francia, diversi militanti – molti dei quali provengono da quartieri poveri – fanno un ottimo lavoro di organizzazione locale ma difendono posizioni totalmente reazionarie su scala internazionale. A partire dal sostegno a Bashar Al-Assad, Hezbollah o al regime iraniano con il pretesto che sono i soli avversari plausibili del nemico principale, Israele.
Tutto questo si spiega con il progressivo declino dei movimenti panarabi, socialisti o di sinistra negli ultimi trent’anni. Questi sono stati sostituiti da qualcosa che viene dipinto come “resistenza popolare” ma che in realtà è una coalizione di autoritari, incarnata dal regime iraniano, dal regime di Assad e dal partito libanese Hezbollah come figure centrali nella difesa della causa palestinese.
Tre eventi hanno giocato un ruolo cruciale nell’evoluzione di questa situazione.
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La rivoluzione iraniana del 1979 con l’arrivo al potere dei mullah (a scapito, all’interno della rivoluzione, dei rivoluzionari marxisti). Si sono rapidamente posizionati come i grandi nemici del sionismo in un contesto in cui poche repubbliche arabe hanno realmente mantenuto la loro opposizione a Israele. Fino ad oggi, sono una fonte di sostegno finanziario massiccio al partito palestinese Hamas.
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La guerra in Libano tra il 1975 e il 1990, durante la quale la sinistra palestinese e libanese fu sconfitta. I principali vincitori sono stati i partiti sciiti e Hezbollah in particolare (finanziato e armato dal 1982 dal regime iraniano), l’unico attore autorizzato a detenere armi in nome del suo ruolo nella “resistenza” a Israele.
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Infine, l’offensiva israeliana in Libano nel 2006. Durante questo conflitto, Hezbollah è riuscito a resistere all’esercito israeliano, il che gli ha dato un’aura speciale sia in Libano che in tutta la regione. Un anarchico libanese una volta mi ha detto che in quel momento, un gran numero di attivisti di sinistra e di comunisti libanesi coinvolti per anni nella causa palestinese sono entrati in Hezbollah. Lui stesso aveva cercato di andare alla frontiera per unirsi, ma era stato rifiutato perché era sunnita, non sciita.
Questo va a toccare un tasto più complicato: al momento non ci sono attori che difendano le nostre posizioni in grado di tenere testa a Israele. È per questo che un cambiamento simile è avvenuto in Francia e molti attivisti che prima difendevano la causa palestinese da sinistra hanno finito per sostenere gruppi reazionari. Nel 2006, all’epoca dei bombardamenti israeliani, ci sono state grandi manifestazioni a Parigi e persino rivolte. La causa palestinese è probabilmente la questione che mobilita più persone nei quartieri più poveri. È importante capire che per questa generazione, quegli eventi hanno simboleggiato un importante momento di dignità in un paese razzista come la Francia, dove i musulmani sono costantemente stigmatizzati e oppressi. Questo è il motivo per cui molte persone che si sono politicizzate in queste manifestazioni considerano ancora gruppi come Hezbollah eroi della causa palestinese e persino dell’antimperialismo.
Purtroppo, Sulemani e Hassan Nasrallah non sono affatto come Che Guevara o Ben Barka. Questi ultimi non hanno difeso un’ideologia reazionaria e autoritaria e non hanno represso le rivolte nei loro paesi come ha fatto Sulemani per il regime iraniano in Siria, Iraq o in patria in Iran.
Infine, è importante ricordare che l’Hezbollah del 2006 non è l’Hezbollah di oggi. Negli ultimi sedici anni, il partito ha mandato migliaia di giovani libanesi a farsi uccidere in Siria per cercare di reprimere una rivoluzione democratica; ha assassinato gli oppositori delle sue politiche; ha soppresso la rivolta in Libano nel 2019 e sembra aver avuto un ruolo attivo nell’esplosione nel porto di Beirut nell’agosto 2020. Nel Libano stesso, Hezbollah non ha più la stessa reputazione. Ha visto centinaia di defezioni. I sostenitori del regime siriano e di Hezbollah nella sinistra libanese (molto meno numerosi) sono sempre più esclusi dai raduni popolari.
Mantenere un’idea fissa dei regimi politici del Medio Oriente è un approccio orientalista che nega le trasformazioni che hanno portato alla nostra situazione attuale. È come se sostenessimo ancora oggi il regime algerino di fronte all’Hirak [le proteste algerine del 2019-2021] con il pretesto che i generali sono gli eredi della rivoluzione algerina che scacciò il dominio coloniale francese. Da quei giorni, questo regime ha monopolizzato tutto il potere, messo a tacere il suo popolo, scatenato una guerra civile e represso decine di rivolte. Di fatto, nessuno pensa di sostenerlo.
Per tutte queste ragioni, è urgente aggiornare le nostre concezioni di internazionalismo e antimperialismo. Questi regimi e partiti non rappresentano l’emancipazione dei popoli del Sud del mondo o dei “non allineati”. Sono forze autoritarie e controrivoluzionarie che soffocano i loro popoli.
I presunti “antimperialisti” non dicono mai nulla su queste questioni. Non dicono una parola sulla violenza politica di cui sono vittime i siriani, gli iraniani, i russi stessi. Peggio, diffondono disinformazione e propaganda direttamente dai regimi autoritari. Privando gli abitanti di questi paesi di qualsiasi ruolo politico, anche quelli che sposano posizioni ideologicamente simili, i falsi “antimperialisti” incarnano l’essenza stessa del privilegio imperialista e razzista.
Il consiglio che vorremmo dare a coloro che sposano queste politiche è di tornare ad ascoltare attentamente le voci dal basso, le voci degli abitanti di questi paesi, in particolare quelli che condividono idee vicine alle nostre – egualitarismo, femminismo, democrazia diretta, autodeterminazione. Invece di parlare del popolo o della classe operaia, andate ad incontrarli quando si sollevano – non solo in Occidente, ma anche in Siria, Ucraina o Iran. Tanto più che molti esuli di questi paesi arrivano nei paesi occidentali.
In un certo senso, è più comodo per alcune persone sostenere questi regimi perché permette loro di avere figure forti da difendere – rende le cose molto semplici. Ma noi non possiamo sostenere questi gruppi. Sostenerli significherebbe tagliarci fuori dai compagni in esilio qui e dai potenziali compagni che stanno lottando per la loro vita, libertà e dignità lì.
Ecco perché la Cantine Syrienne e Les Peuples Veulent hanno fatto della lotta contro questo tipo di “anti-imperialismo” uno dei loro obiettivi principali. A nostro avviso, i punti di vista più preziosi sulla questione sono spesso quelli che provengono direttamente dal Medio Oriente – perché, essendo stati a lungo presi tra l’incudine (gli Stati Uniti) e il martello (i regimi autoritari della regione), hanno sviluppato discorsi che sono radicati nella situazione immediata lì.
Dobbiamo riconoscere che il mondo non è più quello di una volta, che siamo orfani di ideologie emancipatrici in competizione con il capitalismo. Ma una cosa è certa: non riusciremo a costruire alternative credibili gettandoci nelle braccia dei regimi autoritari.
Cosa direste a chi rischia di diventare rifugiato su come continuare nello sforzo organizzativo in un contesto straniero? E alla gente del posto che vuole sostenere i rifugiati nel farlo?
L–: Ai rifugiati diciamo: se per qualche motivo alcuni governi sono in qualche modo favorevoli o meno repressivi nei confronti delle persone del vostro paese e della vostra situazione, non sentitevi mai in debito nei loro confronti. Sono sempre le persone, la gente del posto, le associazioni e le organizzazioni che fanno la maggior parte del lavoro per accogliere gli esuli. Gli Stati non sono mai totalmente dalla nostra parte.
Cerca di informarti il più possibile sulle diverse lotte e le diverse comunità politiche attive nel tuo luogo d’esilio. Per costruire dei legami con gli attivisti locali, è importante capire quali sono le loro lotte: parla con loro, fai loro delle domande, chiedi loro di fornirti la letteratura militante che leggono, per esempio; individua dei terreni comuni che puoi condividere e per cui lottare.
Non aspettarti che la gente venga a sostenere la tua causa in patria solo perché sei rifugiato o perché sfuggito alla guerra o a un disastro naturale. Se intendi mantenere legami coerenti e duraturi con gli attivisti locali e continuare a organizzarti dall’esilio in relazione alle questioni di casa, è importante andare oltre le risposte immediate e le azioni di soccorso, per costruire fiducia e amicizie. A volte, il modo migliore per condividere la tua lotta con la gente del posto è organizzare concerti e proiezioni di film, ballare e mangiare insieme. Abbiamo bisogno di gioia, umorismo e festa nelle nostre lotte, specialmente quando portiamo dentro di noi traumi pesanti.
Ricorda che nel luogo in cui sei esiliato ci sono persone di altre nazionalità, che siano rifugiati o meno, che possono condividere una situazione simile alla tua. Entrare in contatto con loro e stabilire alleanze e coordinarti con le loro comunità può dare forza e aprire gli occhi.
Alla gente del posto diciamo che l’organizzazione con i rifugiati non dovrebbe essere limitata ad azioni umanitarie o al lavoro di solidarietà. È un’enorme opportunità per conoscere tattiche, pratiche politiche e strategie diverse che potresti adattare al tuo contesto locale; è un’occasione per trovare ispirazione e condividere riflessioni e analisi. Ascolta ciò che hanno da dire: non solo le storie e le testimonianze di quello che hanno sofferto – anche se quelle sono molto importanti – ma anche le loro idee su come potrebbe essere il cambiamento nei loro paesi o nel tuo.
Cosa possono fare le persone nel mondo per fornire sostegno ai rifugiati nella diaspora siriana e in altre diaspore? Quali risorse e progetti è importante creare?
L–: Ci sono molte cose che le persone possono fare per aiutare le comunità della diaspora e i rifugiati nei loro paesi:
- Combatti le politiche razziste e xenofobe del proprio paese.
- Informati sulle lotte in altri paesi e cerca di adottare posizioni internazionaliste nelle tue lotte locali e nazionali.
- Dai alle persone in esilio lo spazio per esprimere e condividere le loro visioni, idee e analisi. Ascoltali. Potreste imparare un paio di cose.
- Tratta gli esiliati non solo come persone che hanno bisogno di assistenza, ma come agenti che possono intervenire politicamente al di là delle questioni che riguardano i loro paesi d’origine o il loro status di rifugiati.
- Metti le tue risorse militanti al loro servizio, se necessario: stampanti, contatti e altro.
- Fornisci spazi e strutture che permettano alle comunità in esilio di auto-organizzarsi. La tua assistenza e i tuoi consigli sono vitali, ma non cercare di dirigere la loro auto-organizzazione.
- È possibile che abbiate divergenze politiche, che non siate d’accordo su tutto. Questo è normale; è importante essere in grado di affrontare e discutere queste divergenze. Non avere paura delle differenze: è un’occasione per tutti di abbandonare il dogmatismo e per gli esiliati di scoprire una nuova cultura politica e altri modi di fare le cose. Potrebbero anche imparare un paio di cose.
- Cerca il più possibile di offrire traduzioni in altre lingue per rendere le discussioni e le attività più accessibili ai nuovi arrivati.
- Offri supporto materiale, logistico, linguistico e amministrativo agli individui o ai collettivi il più possibile.
Abbiamo bisogno di più traduzioni dall’arabo ad altre lingue e viceversa. La cosa così bella del vostro lavoro a CrimethInc. è che i testi vengono immediatamente tradotti in più lingue, dando accesso e mettendo in rete attivisti e realtà di tutto il mondo. È prezioso, soprattutto in relazione a situazioni come quella che sta accadendo oggi in Ucraina, poter avere report di prima mano dai compagni sul posto in inglese, francese, tedesco e altre lingue. Alla Cantine, stiamo iniziando a pensare a come essere più attivi nella traduzione di testi da e verso l’arabo. Quindi questo è un appello aperto: se qualcuno volesse dare un po’ del suo tempo per farlo, non esiti a contattarci acantine.syrienne@gmail.com.
A parte questo, abbiamo bisogno di una nuova Internazionale dal basso – che si tratti di reti, incontri e riunioni regolari, organizzazioni, piattaforme o forum. Non sappiamo quale forma possa assumere, ma abbiamo bisogno di pensare più seriamente a strutture capaci di solidarietà transnazionale concreta, raccogliendo proposte strategiche e costruendo una narrazione alternativa comune per avere un impatto sul terribile corso nazionalista e reazionario del mondo. Ciò che sta accadendo in Ucraina rende tutto ciò ancora più urgente.
Quali sono alcune fonti attraverso le quali i lettori possono tenersi aggiornati sulla situazione in Siria e sulla diaspora siriana? Come possiamo sostenere voi e altri progetti correlati?
Per tenersi al passo con le notizie e le mobilitazioni dalla Siria o per sostenere il lavoro di mutuo soccorso:
Cerchiamo anche di costruire un inizio di media internazionalisti. Su cantinesyrienne.fr puoi trovare le nostre attività e alcuni articoli in francese e arabo sulla rivoluzione siriana e altre lotte nel mondo.
Puoi sostenere finanziariamente la _Cantine Syrienne_qui.
Cantine che ha partecipato a questa intervista.
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O è l’unico membro non siriano della ↩